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Sea Watch, le conseguenze nefaste della retorica sui migranti

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Ci stiamo incattivendo e lo dico. I rigurgiti razzisti ci sono e non voglio nasconderli. L’immigrato, il diverso, sono sempre più spesso i comodi bersagli di frustrazioni e sconfitte.

Il dibattito sui migranti ha assunto, ormai, toni persino stucchevoli. La recita a soggetto dei buonisti e dei cattivisti (su cui mi sono lungamente espresso da queste pagine) si trascina stancamente, attendendo la soluzione per la Sea Watch. Che sarà identica a quella per la Diciotti, senza che nessuno si prenda la briga di chiedersi come siano stati utilizzati i sei mesi trascorsi, fra un episodio e l’altro. L’importante è dire di aver vinto o che qualcuno ha perso, sbandierare un nemico piegato, una ragione affermata. A chiacchiere.

Nel frattempo, nulla di sostanziale è cambiato, se non l’umore del Paese, che sembra scivolare dall’indifferenza all’insofferenza. Non di rado, anche in qualcosa di peggio. Agli indicatori dei social, a disposizione di tutti, aggiungo il personale punto di osservazione offertomi dal quotidiano lavoro in radio, a Rtl 102.5.

Ormai, sfiorare appena il tema significa scatenare un’ordalia, una canea di accuse, invettive, puro odio. Distillato attraverso qualsiasi forma di comunicazione sia disponibile. È come se gli argini stiano improvvisamente cedendo: dopo anni, la propaganda sull'”invasione” ha raggiunto il suo culmine. A dispetto di un governo che legittimamente rivendica di aver azzerato o quasi gli sbarchi e di aver imposto la lettura italiana del problema all’Europa, per una consistente fetta di pubblica opinione questi risultati non bastano. È il momento di sottolineare la “liberazione” dal giogo dei migranti, dei neri, degli islamici, dei “ricchi” e di chi voleva trasformare l’Italia, come troppi incauti agitatori da talk show sono andati ripetendo per anni. Oggi, rischiamo di pagare tutti le conseguenze di questa retorica sconsiderata, con una convivenza civile avvelenata.

Prima vittima di questo rigurgito di rabbia, la ragione. Chiunque provi a non cercare l’applauso facile delle tristi claque in giro, viene bollato come “nemico del popolo”, un esponente dell’elite affamatrice.

Fino a poco fa, servivano i bot, per scatenare le ondate social. Oggi, un esercito di volenterosi pappagalli è pronto ad azzannare chiunque non accetti il sonno delle menti. I sovietici, maestri della “disinformatia”, li chiamavano “utili idioti”. Erano i soggetti che, in modo del tutto inconsapevole, favorivano gli interessi di destabilizzazione, tipici dei servizi dell’allora Urss. Oggi, li troviamo ovunque, nei posti di lavoro, al supermercato, sull’autobus. Sono quelli che accusano sempre gli altri dei propri fallimenti, delle loro mancanze. Oggi sono tronfi (convinti che finalmente tocchi al popolo), ma presto potrebbero diventare rabbiosi, quando scopriranno l’inevitabile verità e cioè che le loro prospettive non saranno cambiate di una virgola, dopo le recenti prove di forza.

L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, in un’Italia che troppo spesso ha smesso di puntare su se stessa, è un’altra ondata di energia negativa. Il carro è ora trainato da quel pezzo di Paese che tace e lavora, anche per chi latra e offende. Dovesse stancarsi, non resterebbero che gli inutili muscoli lucidati sulla Sea Watch.

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