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Perché serve una strategia (militare) per lo spazio

Di Marco Marcovina e Pablo Mazurier

Che lo spazio rivesta un ruolo strategico in ambito militare è ormai una tautologia. Dalla guerra del Golfo in poi siamo tutti abituati a immagini di bombe intelligenti che colpiscono il bersaglio guidate dal Gps, reparti che dal campo di battaglia comunicano via satellite con centri di comando remoti, droni i cui equipaggi si trovano in un altro continente, immagini dettagliate riprese da sensori imbarcati su satelliti in orbita bassa. E la tecnologia si sta ancora evolvendo.

NUOVI SCENARI

Presto dovrebbero vedere la luce costellazioni di migliaia di satelliti pensate per fornire connettività in ogni punto del globo. Stando così le cose, non stupisce che negli Stati Uniti, su impulso del presidente Donald Trump, sia ripartito il dibattito sulla necessità di dotarsi di una Space Force autonoma, ricalcando la decisione che dopo la Seconda guerra mondiale sancì la rilevanza strategica della US Air Force. Cina e Russia sono ormai diventati dei competitor temibili; per quanto riguarda la Nato, sebbene manchi una strategia comune, i singoli paesi stanno sviluppano strategie e programmi su base nazionale.

NON SOLO INGEGNERI

A questo punto sembrerebbe il caso di passare la palla a ingegneri e analisti di sistema. Lo scopo del gioco dovrebbe essere sviluppare sistemi d’arma che sfruttino appieno le potenzialità dello spazio come moltiplicatore di forza (mantra degli stati maggiori), siano resilienti (altro mantra) a potenziali attacchi e possibilmente consentano di passare all’offensiva contro la componente spaziale dell’avversario.
La realtà, purtroppo, è molto più complessa.

LE IMPLICAZIONI STRATEGICHE

Nei primi anni del Novecento, gli Stati maggiori avevano assistito a un’altra rivoluzione tecnologica, quella legata all’industrializzazione della guerra (per intenderci: cannoni e munizioni in quantità mai viste prima, mitragliatrici, filo spinato e masse di uomini scaraventate al fronte su rotaia). Avevano anche avuto un caso di studio per capire le implicazioni di tutto questo nel conflitto Russo-Giapponese del 1905. Eppure dal 1914 al 1918 lanciarono i loro eserciti in ripetute offensive alla ricerca di uno sfondamento e una manovra impossibili da ottenere. Avevano capito il funzionamento delle tecnologie, ma non erano stati in grado di porle nel più ampio contesto operativo e strategico.
Durante tutta la guerra del Vietnam i generali americani inconsciamente cercarono di replicare la ricetta che aveva assicurato loro la vittoria quando erano colonnelli sui campi di battaglia della Seconda guerra mondiale e che era divenuta l’elemento fondamentale della cultura organizzativa della US Army: disporre in ogni occasione di una soverchiante superiorità di fuoco. Il dato interessante è che, per tutta la durata del conflitto vietnamita, praticamente tutte le innovazioni americane, tattiche e tecnologiche, furono dirette in questo senso, mentre ne furono tralasciate altre che si sarebbero potute perseguire se la guerra fosse stata concepita veramente come una di contro-insurrezione. La superiorità tecnologica in Vietnam non fu sufficiente a compensare questo fondamentale errore di valutazione strategica.
Volendo andare addietro nel tempo, quando le armi da fuoco individuali si diffusero sui campi di battaglia europei nel sedicesimo secolo, la loro rilevanza non stava in una superiorità tecnica rispetto all’arco e la balestra. In effetti un archibugio per gittata, precisione e capacità di penetrazione era inferiore a una balestra o un arco. Ma, a differenza di un arco, richiedeva solo pochi giorni di addestramento e consentiva al condottiero di approvvigionarsi di uomini a buon mercato e facilmente controllabili.
Innumerevoli esempi di questo tipo ci insegnano che le implicazioni strategiche di una rivoluzione tecnologica non sono facili da prevedere, ma soprattutto che la loro comprensione passa solo in minima parte attraverso la dimensione tecnica. Diceva Bernard Brodie che un buon stratega è prima di tutto un buon antropologo.

IL PENSIERO CHE SERVE

Stando così le cose, la domanda non è come lo spazio ci aiuterà a vincere con più facilità le guerre che abbiamo combattuto finora, ma che forma queste assumeranno dato il fatto che saranno combattute anche nello spazio.
La risposta a questa domanda non sarà data solo da ingegneri e analisti di sistema, ma da un pensiero strategico che studi l’intersezione tra tecnologia e politica, anche ispirato, per quanto possibile, dall’analisi di analogie storiche.
Per pensare alle innovazioni occorre avere una solida cultura dei classici del pensiero strategico, non per avere la risposta alle domande del futuro, ma per sapere quali siano le domande giuste da porsi.
Prendendo spunto da Clausewitz (autore di cui già durante la Prima guerra mondiale si diceva che tutti i generali lo avevano citato ma nessuno lo aveva letto), alcune domande possono già essere formulate. Dato lo stato attuale della tecnologia e la situazione politica, qual è il rapporto di forza tra difesa e offesa? Che ritmo avranno operazioni militari nello spazio: saranno destinate a una rapida escalation che non lascia spazio al decisore politico o tenderanno ad avere tempi morti? Sarà possibile una battaglia nello spazio, al fine di annichilire in un unico scontro il grosso delle infrastrutture dell’avversario, o sarà più che altro una guerra d’attrito? Ci saranno strategie diversificate per il dominio dello spazio? A questo proposito si potrebbe notare come a partire dal Cinquecento le strategie per il dominio del mare si diversificarono, con la marina inglese orientata a una strategia di battaglia e annichilimento e le marine dei paesi continentali orientate a una guerra di corsa.

Gli autori ringraziano il colonnello Villadei dell’Aeronautica Militare per i sui commenti sull’articolo.

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