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Sull’Amazzonia è subito gelo tra papa Francesco e il neo-presidente Bolsonaro

Mentre Papa Francesco sprona la Chiesa locale ad avere un volto sempre più “amazzonico e indigeno”, e non a caso il Sinodo del prossimo ottobre sarà proprio dedicato all’Amazzonia, il neo-presidente brasiliano Jair Bolsonaro, appena insidiatosi nel suo ruolo ha subito approvato un decreto in cui viene assegnata al ministero dell’Agricoltura la responsabilità di certificare la protezione dei territori indigeni, con la loro identificazione e demarcazione, sottraendola in questo modo alla Fundación nacional del Indio (Funai), l’organismo responsabile della protezione dei diritti e del benessere delle comunità indigene. Indebolendo così, di conseguenza, i diritti degli indigeni. Il che ovviamente ai vescovi locali non è andato giù, e né tantomeno, sembrerebbe, alla Santa Sede, vista anche la notizia che campeggia tra le pagine dell’Osservatore Romano.

“Questa funzione — stando all’ordine esecutivo — sarà affidata al ministero dell’Agricoltura, guidato da Teresa Cristina, finora deputata eletta nel Mato Grosso do Sul e leader del gruppo parlamentare della Bancada Ruralista, la potente lobby che rappresenta in parlamento gli interessi dei grandi proprietari agricoli, frequentemente in conflitto con gli indigeni per lo sfruttamento dei loro territori”, riporta infatti tranchant il quotidiano della Santa Sede. Lobby che quindi desidera nient’altro che un maggiore accesso alle terre della foresta amazzonica. Bolsonaro, populista di estrema destra, ex capitano dell’esercito descritto come il Donald Trump del Sud America anche per via dell’appoggio ricevuto dal mondo evangelico, che a differenza della situazione americana in cui si è perlopiù sorvolato su certi atteggiamenti del tycoon in questo caso ha ricevuto una vera e propria condivisione della sua campagna politica contro la deriva morale liberale, già in campagna elettorale aveva più volte fatto menzione della possibilità di “aprire la foresta amazzonica allo sfruttamento agricolo e  minerario e alla costruzione delle grandi dighe idroelettriche, riducendo tutti i  vincoli posti a difesa della natura e dei  popoli indigeni”.

Per questo, scrive il giornale che riceve la bollinatura della segreteria di Stato vaticana, “la decisione non ha sorpreso i commentatori politici”. L’ordine esecutivo, che rientra in un programma di riorganizzazione ministeriale, è stato pubblicato nella Gazzetta ufficiale dopo la firma di mercoledì. Tuttavia, già in precedenza aveva creato polemiche il maldestro paragone del nuovo presidente brasiliano, in cui le comunità aborigene che vivono in aree protette della foresta venivano associate nientemeno che ad animali da zoo, probabilmente le stesse che Papa Francesco visitò nello scorso gennaio in Perù, a Puerto Maldonado, in cui il Pontefice invitava, in perfetta antitesi al politico della formazione social-liberale, “a rompere il paradigma storico che considera l’Amazzonia come una dispensa inesauribile degli Stati senza tener conto dei suoi abitanti”.

“I popoli originari dell’Amazzonia non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora”, disse Francesco in quell’occasione, puntando il dito contro, “da una parte, il neo-estrattivismo e la forte pressione da parte di grandi interessi economici che dirigono la loro avidità sul petrolio, il gas, l’oro, le monocolture agro-industriali”, e dall’altra la minaccia “viene anche dalla perversione di certe politiche che promuovono la ‘conservazione’ della natura senza tenere conto dell’essere umano e, in concreto, di voi fratelli amazzonici che la abitate”. Anticipando così buona parte delle critiche da parte dell’opposizione e degli attivisti pro-indigeni che ora, a un anno di distanza, si riversano sul candidato vincente alle ultime elezioni brasiliane.

“Lo smantellamento è iniziato, il Funai non è più responsabile dell’identificazione, delimitazione e demarcazione delle terre indigene”, scrive su Twitter Sonia Guajajara, militante per la difesa dei diritti degli indigeni brasiliani, riportata dal quotidiano ora passato alla direzione del professore Andrea Monda. Bolsonaro “offre ai carnefici l’opportunità di essere ancora più violenti con coloro che sono stati le loro principali vittime durante la storia”, rincara l’ex ex ministro dell’Ambiente Marina Silva, considerato poi che la prima intenzione del presidente eletto era quella di fondere i ministeri di agricoltura e ambiente, facendo però in seguito un passo indietro, con le lobby agricole preoccupate da possibili sanzioni sui loro prodotti da parte dei paesi più attenti alle tematiche della tutela ambientale.

Bolsonaro ha portato avanti la campagna elettorale che gli ha permesso di conquistare il potere con l’appoggio di grandi gruppi conservatori di uomini d’affari, l’esercito, le chiese e la potente lobby agricola, promettendo crescita economica attraverso la riduzione dei regolamenti e le protezioni ambientali. “Questa coalizione di movimenti di destra lo ha aiutato a sconfiggere il Partito dei lavoratori nei sondaggi e lo ha costretto a rispettare il cambiamento che ha promesso, oltre a trasformare il suo piccolo partito nel secondo gruppo più grande al Congresso”, spiega il New York Times.

La Costituzione brasiliana infatti, approvata nel 1988 dopo ventun’anni di dittatura militare, stabilisce garanzie per i gruppi storicamente emarginati, cercando di riparare quanto accaduto negli anni precedenti, tra cui il riconoscimento del diritto delle comunità indigene a controllare le aree in cui dimoravano i loro antenati. La dittatura infatti aveva giù cercato di integrare quelle comunità indigene autonome che vivevano in regioni remote, poiché le consideravano un impedimento allo sviluppo di aree ricche di minerali o che potevano essere convertite in coltivazione o bestiame.

“Negli ultimi otto anni, il governo brasiliano ha rimosso le protezioni per le comunità indigene tagliando i fondi per i programmi e dando priorità agli interessi delle industrie che vogliono un maggiore accesso all’Amazzonia”, scrive ancora il Nyt riportando le parole di un’antropologa della Fondazione Nazionale dell’India, Leila Sílvia Burger, in cui afferma che “la nuova misura di Bolsonaro è stata un colpo devastante per coloro che hanno trascorso le loro carriere nel tentativo di realizzare la visione di una costituzione che cercasse di riparare il danno causato alle popolazioni indigene dopo decenni di abusi”. “C’è paura e dolore. Sembra una sconfitta, un fallimento”, dice la donna.

Attualmente ci sono 436 zone designate formalmente come territori indigeni autonomi, e in quasi la metà di essi vivono popolazioni non indigene. Più di 120 di questi territori, rivendicati dai gruppi indigeni come propri, sono sotto esame. Da quando infatti sono state abbassate le protezioni da parte del governo negli ultimi anni, minatori, agricoltori, allevatori di bestiame e boscaioli si sono stati stabiliti in centinaia di siti, violando la legge. Tuttavia, in campagna elettorale Bolsonaro ha affermato che le comunità indigene non avrebbero ottenuto “un pollice in più” di riserve.

Nel suo discorso di insediamento di mercoledì, il nuovo ministro dell’agricoltura Tereza Cristina Corrêa da Costa Dias non ha fatto alcun accenno sulle terre indigene. Rispondendo ai giornalisti la donna, già indagata per aver ricevuto donazioni alla sua campagna elettorale da un proprietario terriero accusato di aver ordinato l’omicidio di un leader indigeno nel 2003, ha spiegato che “non creeremo un problema dove non c’è”, e che si tratta “semplicemente di un problema organizzativo”. “Oltre il quindici per cento del territorio nazionale è demarcato come territorio indigeno”, e “meno di un milione di persone vivono in posti lontani dal vero Brasile, sfruttati e manipolati dalle ong”, ha scritto su Twitter Bolsonaro. “Vogliamo integrare questi cittadini, gli indigeni, per dare lo stesso valore a tutti i brasiliani”


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