Tutto può ancora accadere, nella battaglia sulle aperture e chiusure domenicali. È una premessa necessaria, visto che un quadro preciso della proposta di legge ancora non c’è. O meglio, c’è un progetto, ma un tale insieme di possibili deroghe, da rendere arduo identificare il punto di caduta di questa annosa polemica.
Comunque vada a finire, non se ne sentiva la minima necessità. Non si riesce proprio a comprendere questa urgenza di cancellare un’abitudine, ormai consolidata per milioni di italiani. E non parliamo solo del poter fare la spesa alla domenica, ma del sapere che i ritmi di vita delle nostre città sono ormai questi. Perché li vogliamo così.
In questa contingenza economica, poi, la scelta assume toni paradossali. Con il Paese che rallenta, un’economia che si raffredda, una recessione che minaccia di trasformarsi da tecnica in reale, inserire un ulteriore granello di sabbia, nei delicati meccanismi della domanda interna sembra un’idea priva di logica. Chiudere i centri commerciali la domenica, perché di questo sostanzialmente si parla, mettendo a rischio 40.000 posti di lavoro, dovrebbe bastare, per bocciare senza appello l’iniziativa. Se aggiungiamo l’idea che sembra accompagnarla, quella di un Paese che fa marcia indietro, che nega una novità apprezzata e condivisa, perché detestata da una minoranza, si stabilisce un principio: non esiste più l’interesse generale.
Una specifica categoria potrà sempre esercitare un diritto di veto, sullo sviluppo economico del Paese.
Oltre il danno, di per sé grave, si profila poi la beffa: saranno tali e tante le deroghe e le eccezioni, da depotenziare il divieto stesso di apertura domenicale. Una soluzione molto italiana, certamente inefficace per tutti. Perché, da un lato, nulla potrà attenuare l’effetto psicologico e pratico della decisione. D’altro canto, tantissimi di coloro che ritengono di subire un sopruso, perché costretti a lavorare nei giorni festivi, vedranno frustrate le loro aspettative. Per molti, quasi nulla cambierà, ammesso che possano conservare il loro posto di lavoro. Una scelta, dunque, del tutto incomprensibile sul piano economico. Giustificabile solo su quello ideologico, legata a una visione passatista, che sembra essersi impadronita di un pezzo rilevante della maggioranza di governo.
C’è ancora tempo per fermarsi, c’è ancora modo di ricordare che compito di una classe dirigente non può essere soddisfare le sia pur legittime aspirazioni di un’assoluta minoranza. Si rischia di prendere voti e perdere il Paese.