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Con l’aggressione a Finkielkraut i gilet jaunes hanno perso la faccia e la credibilità

gilet gialli

I gilet jaunes si stanno suicidando. E, allo stesso tempo, resuscitano Emmanuel Macron che avevano contribuito a screditare politicamente. Dopo la deriva violenta di buona parte del movimento, sembra che le componenti più ragionevoli siano destinate a soccombere e ad accettare la marginalità alla quale sono state condannate.

Dopo quattordici week end ad alto tasso contestativo, quello che sembrava un moto spontaneo (così era nato) di reazione della Francia profonda alle vessazioni governative contro i ceti più deboli ed alla incapacità dell’establishment di comprendere le ragioni del disagio di una società sempre più confusa, incerta, malmessa è diventato, ad opera di velleitari in ritardo di oltre due secoli, una sorta di scombinata jacquerie a beneficio di spostati che cercano una facile ribalta dalla quale esibire il nulla politico, se non la blasfemia di un populismo arrogante e velleitario sconfinante in ridicole minacce insurrezionali.

A parte gli incidenti, provocati ad arte; a parte l’attacco alle istituzioni repubblicane nei loro simboli che trascendono le presone che le incarnano; a parte l’eccitazione che ha contagiato anche intellettuali solitamente avveduti, come si fosse alla vigilia di una grande rivoluzione in nome di niente perché niente in poco più di tre mesi è venuto fuori dagli appuntamenti in piazza dei “sabati francesi”, ci appare evidente che l’assenza progettuale e programmatica del movimento , tutt’altro che “fatale”, abbia segnato la sua fine – comunque evolvano gli avvenimenti – nella ignobile, criminosa, volgare e purtroppo significativa aggressione (fortunatamente senza conseguenze fisiche) ad uno dei più grandi intellettuali francesi, Alain Finkielkraut, accademico di Francia, pensatore di orientamento conservatore, critico spietato – e credibile – della decadenza del suo Paese non meno che di quella dell’Europa, con l’accusa di essere ebreo e, dunque, indegno di restare sul suolo francese dove è nato e vive da sessantanove anni.

Questi rottami di un mondo che negligentemente si ritiene estinto, ignoranti al punto di non riconoscere in Finkielkraut una delle intelligenze europee migliori, spietato critico di una modernità che ha prodotto quelle contestazioni di cui lui stesso è stato oggetto, vorrebbero rappresentare il “nuovo” fino a farsi mallevadori di ridicole “rivolte europee” immaginando di attrarre parvenu di nuovi poteri che, a loro stessa insaputa, si rappresentano e vengano percepiti come nuove élites , neanche a dirlo tra le più scadenti che si siano mai viste in circolazione.

Alain Finkielkraut, autore sei anni fa di un denso e lucidissimo libro L’identité malheureuse (Stock, 2013) nel quale denunciava la fine dell’identità europea legata alla crescente immigrazione ed ad un cosmopolitismo culturale licenzioso e dannoso, e molti anni prima in un altro suo libro – per il quale ho avuto l’onore di scrivere la Prefazione – La sconfitta del pensiero (Nuove Idee, 2007) immaginava che la sua descrizione della decadenza culturale sarebbe stata superata dagli eventi e si sarebbe aggravata al punto di temere l’acuirsi della frattura tra le ragioni dell’essere ed il sentimento dell’abbandono, sospettasse che il declino tracciato portasse alle conseguenze odierne. È probabile, comunque. Anche perché nel frattempo il filosofo francese, non diversamente da altri pensatori transalpini appartenenti alla sua stessa generazione, ha continuato a produrre idee in linea con quelle esposte in questi saggi riassumibili nella diagnosi della decadenza che, a sue spese, prima con vari tentativi di demonizzazioni intellettuali, da parte soprattutto della gauche, e poi con il ritrovarsi al centro di atteggiamenti di violento antisemitismo che nulla c’entra con le ispirazioni iniziali dei manifestanti, ha duramente pagato.

I gilet jaunes , rozzi come sono – non tutti beninteso, ma soltanto coloro che hanno capacità di mobilitare i più facinorosi ed emarginare i più ragionevoli (dai quali ci attendiamo parole inequivocabili di condanna per quanto è accaduto) – non sospettano neppure che Finkielkraut è stato ed è anche uno dei più intelligenti critici del “pensiero unico” mercatista al quale loro, pur ignoranti, dovrebbero attingere per dare un senso alla loro contestazione. Abbiamo il sospetto che i rivoluzionari da operetta di Parigi e dintorni, abbandonate le campagne, il mondo rurale, le battaglie per una vita più sostenibile, non siano altro che il prodotto di ciò che a parole avversano: il totalitarismo consumistico.

Non senza ragione e con molta amarezza, proprio Finkielkraut osservava che “la parola d’ordine di questo nuovo edonismo, che rifiuta sia la nostalgia che l’autocritica, è scoppiare”, nel senso che i suoi “apostoli”, i liberatori insomma – intellettuali, costruttori di mode, anchormen, ecc. – da veri “padroni del pensiero” della modernità, non vogliono una società regolata secondo il diritto naturale o quantomeno rispondente a canoni di civile ed accettabile convivenza, ma ad una “società polimorfa”, perciò essi non raccomandano “tanto il diritto alla differenza quanto l’ibridismo generalizzato, il diritto di ognuno alla specificità dell’altro. Secondo loro, multiculturale significa ben fornito; non sono le culture in quanto tali che essi apprezzano ma la loro versione edulcorata, la parte di esse che si può sottoporre ad un test, assaporare e gettare dopo averne fatto uso. Consumatori e non conservatori delle tradizioni esistenti, sono i ‘clienti-re’ che scalpitano davanti agli impedimenti che ideologie vetuste e rigide frappongono alla realizzazione del regno della diversità”.

Malinconica diagnosi; tristissima descrizione di una condizione che non ammette repliche. Finkielkraut neppure si lascia sedurre dalle possibilità, per quanto remote, di una rinascita. E del resto, come potrebbe? Noi tutti siamo figli delle contraddi- zioni di due secoli, amorevolmente coltivate, immensamente desiderate: il risultato non poteva essere più umiliante. I gilet jaunes , almeno nell’ultima versione che offrono di loro, asseverano il punto di vista di Finkielkraut e si conformano al modello che la società da loro stessi criticata ha approntato per i loro svaghi e le loro pantomime.

Non so se quel che hanno mandato in scena a Parigi li faccia riflettere sull’errore e sull’orrore. Di certo il movimento non sarà più quello che ingenuamente immaginavano agli inizi dello scorso autunno i promotori, anzi la promotrice. E quanti avevano visto con interesse l’emergere nel cuore dell’Europa di una radicale messa in discussione del potere costituito in nome dei deboli, dei disagiati, di quelli che non c’è la fanno più, tanto nelle metropoli quando nelle campagne, e vorrebbero reagire al nichilismo rappresentato, per esempio, da Michel Houellebecq nel suo romanzo Serotonina, forse devono ricredersi.

I gilet jaunes sono arrivati al capolinea, a meno che i più consapevoli, i cittadini ed i contadini maggiormente avveduti, non emarginino chi li ha trascinati nella deplorevole condizione nella quale, loro malgrado, sono venuti a trovarsi. Cominciando magari con il chiedere scusa ad Alain Finkielkraut.

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