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Come si destreggerà il governo sul caso banche

Lega

Fa uno strano effetto vedere i due vicepremier, Di Maio e Salvini, uniti senza distinguo su un tema. E che tema! Quello delicatissimo delle banche e del risparmio.

Che i due siano costretti ogni giorno a punzecchiarsi e a distinguersi l’uno dall’altro per conservare la loro identità e il loro elettorato, ma che poi finiscano come quei coniugi di vecchia data costretti a restare insieme perché ogni altra alternativa porterebbe più costi che benefici, questo è un dato di fatto. È un governo fisarmonica, costretto per la stessa natura ad allargare i nodi della mantice per poi ricomporli. Facciamocene una ragione: i due contraenti del patto di governo, salvo eventi esterni non prevedibili, governeranno per tutti i cinque anni. E faranno la loro rivoluzione pacifica, che si esplicherà soprattutto in un cambio di uomini e classi dirigenti.

Credo che il blocco della riconferma di Luigi Federico Signorini alla vicedirezione della Banca d’Italia, e la richiesta di azzeramento dei vertici anche della Consob fatta ieri a Vicenza da Salvini, siano più significativi delle parole di fuoco usate dai due vicepremier contro il sistema bancario davanti a una platea di risparmiatori truffati.

L’unità di intenti fra le due forze politiche era in questo caso nei fatti: i Cinque Stelle si pongono sempre come i risarcitori dei torti, veri o presunti, subiti dai cittadini, mentre la Lega giocava sul suo terreno, in quel nord est i cui spiriti vitali imprenditoriali hanno creato negli anni scorsi una pletora di piccoli azionisti e risparmiatori che nei fatti non sono stati tutelati. Ovviamente, le reazioni degli oppositori del governo hanno fatto subito riferimento a paroloni come “indipendenza”, “autorevolezza”, intoccabilità degli “organi di controllo”. Tutti valori ovviamente sacrosanti, ma che a mio avviso non fanno i conti in questo caso con la realtà.

La Banca d’Italia, ad esempio, ha avuto tanti meriti nella storia d’Italia e ha meritato la stima di cui gode, anche se essa sfocia a volte in una sorta di “sacralità” che in un mondo secolarizzato nessuna istituzione umana dovrebbe avere. Nemmeno essa però si è sottratta alla legge aurea delle élite enunciata un secolo fa da Mosca e Pareto: che è quella di autotutelarsi, chiudersi, conservarsi, preservarsi, rendere irresponsabili i propri uomini anche di fronte a palesi fallimenti. Che la politica intervenga a questo livello non è un male, anche perché i poteri dello Stato devono essere (relativamente) indipendenti sì, ma devono anche controllarsi a vicenda. Il paradosso è che però, nel momento in cui sarebbe un bene immettere nell’amministrazione nuovi uomini, questi non si trovano o non hanno quelle expertises che occorrono e di cui la burocrazia al contrario della politica non può fare a meno. Uno dei problemi dell’Italia è che un sistema da anni bloccato non le ha lasciate maturare.

Da come le nuove forze politiche sapranno destreggiarsi in questa situazione, dipenderà molto del giudizio che la storia darà su di loro. Così come di quello che darà, più in generale, su questo strano e rischioso, ma per certi versi affascinante, esperimento di governo.


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