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Repubblica romana 1849 e Repubblica italiana 2019. Insegnamenti e sfide

Di Alberto Improda

Il 9 febbraio 2019 saranno trascorsi 170 anni dalla fondazione della Seconda Repubblica Romana, rimasta nella storia come la Repubblica Romana per antonomasia, di gran lunga più importante della Prima Repubblica Romana, risalente al periodo napoleonico. La Repubblica Romana ha rappresentato una delle pagine più alte nella storia del nostro Paese e la sua Costituzione, promulgata il 3 luglio 1849 dalla loggia del Campidoglio, è stato un documento di straordinaria rilevanza e modernità, vero e proprio punto di riferimento per la cultura giuridica europea del Novecento e per la Costituzione della Repubblica Italiana del 27 dicembre 1947.

La Repubblica Romana e la sua Costituzione meritano di essere senza sosta studiate e ricordate per tanti e diversi motivi. Spesso si sottolinea, a ragione, come la Repubblica Romana e la Costituzione del 1849 abbiano sotto vari aspetti precorso i tempi ed anticipato una serie di principi che poi sarebbero diventati patrimonio culturale comune, tanto in campo nazionale quanto a livello internazionale: libertà di culto, laicità dello Stato, abolizione della pena di morte e della tortura, abolizione della censura, libertà di opinione, istituzione del matrimonio civile, diritto alla casa, divisione dei poteri, etc. etc.

In questa sede vogliamo però guardare a quella esperienza da una angolazione piuttosto peculiare, per tentare di trarne un insegnamento – in aderenza al pensiero di Benedetto Croce – atto a farci meglio comprendere e vivere la difficile realtà contemporanea. Non vi è dubbio che questo inizio di Terzo Millennio rappresenti un tempo estremamente ostico, caratterizzato da un generale senso di spaesamento e disorientamento, da un fondo di rabbia largamente diffuso e da un sentimento di acredine molto profondo, depositato quasi in una sorta di inconscio collettivo.

Le ragioni di questo stato delle cose sono numerose, a volte strettamente concatenate, a volte meno: la progressiva crescita delle disuguaglianze, il definitivo tramonto delle ideologie novecentesche, la crescente polarizzazione degli assetti economico-sociali, l’imperversante finanziarizzazione dell’economia, l’inarrestabile digitalizzazione e automatizzazione delle imprese, l’ineludibile restringersi degli spazi occupazionali, etc. etc.

Fatto sta che, evidentemente, gli anni che stiamo vivendo risultano caratterizzati da un bassissimo livello di coesione sociale: in ogni ambito prevalgono logiche individualistiche, la solidarietà viene spesso vista come un vezzo da radical chic, in tutti gli aspetti della società si assiste ad un rinchiudersi dei cittadini nel proprio particolare. Non mancano naturalmente molte, bellissime e straordinarie eccezioni, con alcuni soggetti – in particolare, ma non solo – del Terzo Settore, che si rendono protagonisti di iniziative di altissimo coraggio e commovente generosità.

Ma questo non giunge a cambiare il tono di fondo, la cifra identificativa, lo spirito più caratteristico del tempo, fatto di rabbia, paura, spaesamento, egoismo, allarme, individualismo, diffidenza. Nella società contemporanea, in poche parole, ci si guarda in cagnesco, ci si confronta con l’altro sulla difensiva, ci si barrica all’interno del proprio interesse particolare, si accoglie con diffidenza – se non con dichiarata ostilità – qualsiasi proposta diretta al bene pubblico.

Sull’argomento molto si è scritto e al tema sono stati dedicati contributi di grande spessore; particolare eco ha avuto di recente un bell’articolo di Alessandro Baricco, apparso su La Repubblica dell’11 gennaio 2019, dal titolo “E ora le elìte si mettano in gioco”. La tesi di Baricco, in estrema sintesi, è che la coesione sociale è saltata perché le persone comuni hanno dichiarato guerra alle elìte.

Fino a pochi anni addietro, secondo l’autore torinese, nella società contemporanea vigeva questo genere di “tacito patto”: “la gente concede alle elìtes dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le elìtes si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere. Tradotto in termini molto pratici descrive una comunità in cui le elìtes lavorano per un mondo migliore e la gente crede ai medici, rispetta gli insegnanti dei figli, si fida dei numeri dati dagli economisti, sta ad ascoltare i giornalisti e volendo crede ai preti”.
Oggi, per una molteplicità di ragioni, quel patto “è andato in pezzi” e “la gente ha deciso di fare da sola”.

Questa analisi, peraltro assai brillante, non ci sembra – sia qui detto per inciso – convincente fino in fondo. Il contrasto in essere, a nostro avviso, non risponde nella sua essenza alla logica “Persone Comuni contro Elìtes”, tanto più che le vecchie elìte sono già state spesso soppiantate da nuove elìte, a loro volta rapidamente finite sotto contestazione e travolte dal malessere imperversante.

Oggi assistiamo ad un fenomeno per descrivere il quale dobbiamo probabilmente fare ricorso ad un armamentario di termini vecchi, che avevamo da tempo ritenuto obsoleti e riposto in soffitta: i cittadini nella società contemporanea si ribellano, in modo più o meno pacifico, a tutto ciò che viene ritenuto “Sistema Vigente”, “Ordine Costituito”. E si tratta di una ribellione istintiva, viscerale, di pancia, che travalica le logiche del giusto e persino dell’utile; per fare degli esempi non domestici, e ovviamente ricorrendo alle semplificazioni proprie del paradosso: il cittadino statunitense medio sa benissimo quanto Hillary Clinton sia una persona più colta e preparata di Donald Trump, ma individua in lei la personificazione dell’Ordine Costituito e quindi sceglie come presidente Trump, senza porsi il problema di quanto questa sua decisione sia avventurosa e ricca di incognite; il cittadino medio britannico avverte chiaramente i rischi connessi ad un’uscita del proprio Paese dall’Unione Europea, ma vede in Bruxelles un emblema del Sistema Vigente e allora opta per la Brexit, mettendo in secondo piano i problemi e i danni per lui scaturenti da questa scelta.

Potremmo continuare a lungo con gli esempi, ma la logica resterebbe la stessa: le persone, angosciate da paure spesso indecifrabili (e quindi ancora più spaventose) oppure oppresse da problemi già assolutamente tangibili (e in rapida e sensibile espansione), oggi si schierano – quasi per default – contro qualsiasi persona, iniziativa, logica o movimento in cui sia in qualche modo ravvisabile il sistema vigente, l’ordine costituito.

Torniamo alla Repubblica Romana e alla Costituzione del 1849. Abbiamo già detto come quella esperienza, di una straordinaria bellezza e nobiltà, sia nella maggior parte dei casi ricordata per avere sotto molti aspetti precorso i tempi, anticipando principi e istituti che poi avrebbero caratterizzato la cultura giuridica e le istituzioni politiche in Europa e in Italia. Noi vogliamo qui guardare a quella vicenda da una prospettiva diversa, mettendone in luce un aspetto spesso poco enfatizzato: la Repubblica Romana rappresentò, nella sua breve vita, un eccezionale esempio di coesione sociale, con una comunità di intenti che cementò in modo esemplare persone profondamente diverse per origini, stato e censo.

A difesa della Repubblica, infatti, confluirono a Roma patrioti dai più diversi angoli della Penisola (romagnoli, umbri, genovesi, napoletani, etc.), provenienti da quelli che allora erano Stati distinti e spesso in conflitto tra di loro, divisi da profonde differenze economiche, sociali e culturali.
Eppure il coinvolgimento della popolazione nella vita della Repubblica fu totale, convinta, incondizionata.

Il deputato Candido Augusto Vecchi, così scriveva in una lettera del 3 maggio 1849 al padre, evidentemente dubbioso sulla determinazione dei cittadini romani: “V’ingannate sul conto del popolo di Roma e della sua Guardia Nazionale. Nessuna reazione, né all’interno della grande né delle campagne che la circondano. Tutti d’un parere solo”. E Aurelio Saffi scriveva il 30 aprile 1849, a poche ore dall’attacco francese: “La virtù e il coraggio di questo popolo supera ogni lode. E’ un popolo degno della libertà per la quale combatte”.

Oltremodo interessante riteniamo quanto è stato rinvenuto nei registri della Sacra Consulta, contenenti gli elenchi degli inquisiti per reati politici una volta caduta la Repubblica e restaurato lo Stato Pontificio: gli inquisiti furono più di 2000, dei quali solo 300 appartenenti al ceto medio e superiore; tutti gli altri risultarono suddivisi tra artigiani e operai: 137 calzolai, 80 muratori, 86 contadini, 59 sarti, 48 falegnami, 46 facchini, 43 negozianti, 36 osti, 36 canepini, 32 macellai, 30 caffettieri, e via dicendo.

Appare allora di fondamentale importanza, per guardare a quella esperienza in un’ottica contemporanea, chiedersi da dove sia scaturita una tale comunanza di intenti, una così forte e completa coesione sociale. La risposta sta in un ulteriore profilo della Repubblica Romana, che troppe volte resta nell’ombra: quell’esperienza nel 1849 rappresentò un elemento di profonda, radicale rottura rispetto a tutte le realtà politiche e sociali allora conosciute; in essa si condensarono e trovarono realizzazione una serie di novità per l’epoca oggettivamente straordinarie, del tutto estranee alle preesistenti strutture dello stato liberale ottocentesco.

Solo per fare qualche esempio, l’effettivo coinvolgimento di tutti i cittadini nella vita delle istituzioni, la previsione – davvero stravolgente, per quei tempi – di un moderno welfare sociale, la funzione educativa dello Stato, le prime elezioni politiche a suffragio universale della storia italiana, che – svoltesi il 21 gennaio 1849 – videro la partecipazione di un elevatissimo numero di elettori.
In buona sostanza, se nella Repubblica Romana si realizzò un eccezionale caso di coesione sociale, di comunanza di intenti tra cittadini, di corrispondenza tra governanti e governati, fu perché essa seppe cogliere lo spirito dei tempi, comprese e incarnò le istanze che agitavano le persone dell’epoca, ebbe la forza di rompere con il passato e adottare soluzioni nuove e fino ad allora quasi inconcepibili, poi in larga parte incardinate nella Costituzione del 3 luglio 1849.

Restando fedeli alla lezione crociana sulla contemporaneità della storia, questa è la prospettiva dalla quale la Repubblica Italiana del 2019 deve guardare alla Repubblica Romana del 1849.
Se vogliamo trovare una risposta alle inquietudini del presente, dobbiamo ispirarci al coraggio di quel passato perché è cruciale che oggi nella società si torni a quella coesione sociale, a quella comunanza di intenti tra cittadini, a quella corrispondenza tra governanti e governati.

Per fare questo, però, bisogna essere capaci di capire l’anima del tempo che stiamo attraversando, di metterci in sintonia con il nostro prossimo, di condividerne le paure, le rabbie, lo spaesamento, le angosce. Si tratta di un’impresa di straordinaria difficoltà, perché i ritmi della crisi sono incalzanti e molti dei convincimenti sui quali ci siamo adagiati fino ad ora risultano ormai vecchi arnesi inutilizzabili, quasi dei reperti archeologici.

Nella società contemporanea, come si fece in quella esperienza di metà Ottocento, dobbiamo in fretta elaborare idee nuove e innovative, che sappiano dare risposta alle esigenze e alle istanze della nostra epoca, prendendo atto che buona parte del nostro consueto armamentario culturale risulta obsoleto, inutile e superato. La Repubblica Romana del 1849, in un contesto politico e sociale davvero drammatico, seppe mirabilmente mettersi in sintonia con il proprio tempo, bruciandosi i ponti alle spalle, accantonando vecchie certezze, adottando soluzioni all’epoca davvero rivoluzionarie, a tratti quasi avveniristiche. La Repubblica Italiana del 2019, oggi, è chiamata alla stessa sfida.

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