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La Pa e la riforma al contrario: che barba, che noia

Si riparte: il giorno di San Valentino è stato portato in Consiglio dei Ministri un disegno di legge delega al Governo per il miglioramento della pubblica amministrazione. I temi oggetto della delega, che investono in gran parte il ruolo e le funzioni della dirigenza pubblica (un sempreverde dell’azione riformatrice di ogni Governo), sono molti e rilevanti, e il testo del ddl, quando disponibile, meriterà un attento studio. Tra i diversi punti annunciati dal Ministro Bongiorno, tuttavia, uno appare sin d’ora di particolare rilevanza: “È importante riuscire a garantire una presenza maggiore dei dirigenti negli uffici”, ha spiegato il Ministro, osservando che “attualmente non è necessaria neppure una certa presenza: una cosa che deve essere rivista”. Qualcuno potrebbe osservare che la reprimenda sulla scarsa presenza dei dirigenti negli uffici sia ingenerosa, perlomeno alla luce delle diverse ricerche che mostrano che i manager Italiani abbiano, al contrario, la pessima abitudine di restare in ufficio assai più degli omologhi dei paesi del nord Europa, la cui performance amministrativa non pare essere oggetto di particolari critiche. E ci si potrebbe chiedere quali siano i dati da cui il Ministro abbia dedotto che i dirigenti pubblici si trattengano poche ore in ufficio. Ma la questione rileva sotto altri, ben più importanti aspetti. La denuncia del Ministro, che intende rivedere la disciplina dell’orario di servizio dei dirigenti pubblici (i quali, en passant, non hanno un orario ma, per contratto, gestiscono il proprio tempo e il organizzano il proprio lavoro), appare totalmente in controtempo rispetto alla direzione verso cui la riflessione internazionale sull’organizzazione del lavoro pare muoversi. Proviamo a spiegare. Praticamente ovunque si discute di come conciliare, per i lavoratori, le esigenze familiari e della vita privata e quelle della propria professione, riconoscendo che le ore da dedicare alla sfera personale non solo sono importanti in quanto tali, ma costituiscono la premessa per una maggiore resa ed efficienza sul posto di lavoro. E non basta. Persino nella nostra arrugginita macchina pubblica si stanno moltiplicando le esperienze di smartworking, o lavoro agile, che tenta di dar corpo – lentamente, con fatica, per tentativi – a modalità di lavoro che prescindano dalla presenza fisica negli uffici, grazie all’utilizzo delle tecnologie informatiche di cui tutti facciamo uso e abuso ogni giorno. Lavorare in remoto, magari accedendo alle informazioni contenute nel cloud dell’amministrazione, è oggi alla portata di chiunque e consente, oltre a evidenti vantaggi in materia di conciliazione, risparmi in termini di tempo e di abbattimento di agenti inquinanti non dovendo recarsi sul luogo di lavoro. Eppure, mentre il settore privato là fuori corre in direzioni nuove, premiando creatività e apporto del singolo, sostenendo operatività che prescindano dallo spazio fisico delle quattro mura, il dibattito in Italia si avvita sulle impronte digitali per certificare la presenza e sulle ore di permanenza del dirigente in ufficio. Si battezza, insomma, quello che potremmo definire il dogma del neo-tornellismo. Non si riesce a lasciare alle spalle, nelle teste del decisore politico, la foto ingiallita della macchina pubblica sul modello di “Tempi moderni” di Chaplin: fordiana, alienante, in grisaglie, in cui il civil servant è una sorta di robottino la cui funzione è pigiare un tasto, senza porsi il problema per il quale un essere umano, pure in ceppi davanti a pile di faldoni, troverà sempre e comunque il modo di essere perfettamente inefficiente. E ancora: il peccato originale del neo-tornellismo è quello di non comprendere, dulcis in fundo, che l’attività di un dirigente pubblico è, di per sé stessa, agile. Il compito del manager pubblico (in questo simile a quello del settore privato) è di gestire in maniera intelligente risorse umane, finanziare e strumentali e tentare di produrre un risultato. E questo solo in parte ha a che fare con la presenza fisica. Intendiamoci: il contatto ed il confronto con i propri collaboratori sono elementi essenziali per costruire spirito di squadra e starà ad ogni dirigente gestire, con il proprio personale stile di leadership, la struttura assegnata. Ma immaginare che per far questo lo si debba inchiavardare alla scrivania è lunare. La sfida è, in molti casi, l’esatto contrario: spingere la dirigenza ad abbandonare quelle scrivanie e confrontarsi di più col mondo esterno e con i tanti, tantissimi stakeholder che, tutti, vogliono qualcosa dalla pubblica amministrazione. La prima, vera riforma da fare è quella di liberarsi degli stereotipi che annebbiano la vista di chi, invece, dovrebbe vedere da qui a venti o trenta anni e immaginare come sarà la PA di domani. Tutti bravi dirigenti? No, affatto. Ci sono cattivi dirigenti come ci sono cattivi politici o cattivi imprenditori. Ma finché la riformite della politica Italiana sarà venata di un intento punitivo e non di accompagnamento e guida al cambiamento, non usciremo da un solco oramai da anni battuto da tutte le forze politiche. Che barba che noia, che noia che barba, Signora Ministro.


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