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Perché l’autonomia regionale è una strada per lo sviluppo di tutta l’Italia

Di Stefano Bruno Galli
questione settentrionale

La questione settentrionale è una “regolarità” – come la definirebbe Gianfranco Miglio – nell’ambito della storia della Repubblica; una questione che la percorre sin dalle origini e ne rappresenta ormai un dato strutturale. Nei fatti si configura come un’aporia originaria e poi s’impone come una persistenza che emerge ciclicamente, come una sorta di torrente carsico che riaffiora a cadenza costante.

I primi a parlare – all’indomani della Seconda guerra mondiale – della questione settentrionale furono i giovani che animarono il movimento comasco del Cisalpino, con l’obiettivo di rappresentare e tutelare gli interessi dell’Italia settentrionale, sino a quel momento considerata una “monumentale mucca da mungere” ovvero “il Paese di Bengodi”, mentre Roma era il centro di una “burocrazia parassitaria”.

Il progetto era quello di dare vita a un ordine politico federale su base cantonale, ispirato all’esperienza storica elvetica. Il 6 novembre 1975, Guido Fanti – primo presidente della Regione Emilia-Romagna – rilasciò un’intervista a La Stampa di Torino. Si era appena conclusa la prima legislatura regionale e Fanti auspicava un accordo permanente tra Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto ed Emilia quale antidoto alla crisi economica del Paese, per andare oltre le vecchie strutture dello Stato burocratico e accentratore, che rappresentavano un freno per lo sviluppo. All’intervista di Fanti replicò Gianfranco Miglio con l’articolo La Padania e le grandi regioni apparso sul Corriere della Sera.

Il professore trovava molto seducente l’idea di una macroregione del nord autonoma dal punto di vista politico e amministrativo. Anche perché lui ci pensava da tempo, sin dagli anni della resistenza, quando aderì al movimento federalista del Cisalpino. Tra la caduta del Muro di Berlino e la fine della Prima repubblica, tra la recessione economica e la crisi valutaria, il dibattito sulla macroregione del nord, quale espressione diretta della questione settentrionale, si riaccende.

A richiamare l’attenzione sul tema è la Fondazione Agnelli, che realizza un’importante ricerca – La Padania, una regione italiana in Europa (1992) – dalla quale emerge con chiarezza l’esistenza di una macroregione del nord, che esige dei margini di maggiore autonomia politica e amministrativa. L’autonomia va di pari passo con una riduzione della pressione fiscale e una compressione degli apparati burocratico-amministrativi, che alimentano la spesa pubblica improduttiva. L’auspicio è quello di un Paese de-fiscalizzato e de-burocratizzato, in una parola de-statalizzato, nel quadro di una riorganizzazione funzionale della pianta amministrativa della Penisola, con le Regioni che dovrebbero passare da venti a dodici, per effetto della soppressione di quelle al di sotto del milione e mezzo di abitanti. In quello stesso 1992 appare anche la ricerca di un politologo di Harvard, Robert Putnam, dal titolo Le tradizioni civiche nelle regioni italiane. E Gianfranco Miglio rilancia il progetto delle tre macroregioni nel quadro di un ordine politico federale.

La questione settentrionale riemerge infine nei dintorni della crisi del 2008 e delle sue propaggini, che conducono sino ai nostri giorni. È un dato ormai strutturale. E non è semplicemente la storia di un primato industriale, di un incubatoio di modernità e di un laboratorio privilegiato dei processi di modernizzazione. Rimane circoscritta, nei suoi caratteri essenziali, al rendimento istituzionale di territori virtuosi, che segnano un primato economico e produttivo; un primato sul quale grava una forte vessazione fiscale, che alimenta un sistema di redistribuzione territoriale delle risorse inefficace e iniquo.

Il percorso costituzionale di negoziare una maggiore autonomia politica e amministrativa imboccato oggi dalle tre Regioni più virtuose del Paese – Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto – è davvero prioritario nell’agenda dell’attuale governo. Dal 1970 – anno di nascita delle Regioni – la strada seguita è stata quella del regionalismo ordinario dell’uniformità, allo scopo di garantire uguali diritti e tutele a tutti i cittadini della Repubblica. I dati ci rivelano che questo modello ha fatto emergere impressionanti – e preoccupanti – differenziali di sviluppo territoriale. Ci sono oggi dei territori in cui il regionalismo ha dato buona prova di sé e ha rappresentato una crescita della qualità della democrazia. In altri non ha funzionato affatto, bisogna prenderne atto.

Nel 1950, due anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana e vent’anni prima della nascita delle Regioni a statuto ordinario, se lo chiedeva anche Gianfranco Miglio: “Dobbiamo considerarci una specie di convoglio, costretto per l’eternità a camminare alla velocità ridotta della nave meno efficiente, oppure dobbiamo consentire alle Regioni più progredite di sviluppare le proprie capacità e le proprie risorse di iniziativa, senza inutili impacci, nell’interesse evidente dell’intera comunità nazionale?”. Nell’interesse generale del Paese, appunto.

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