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Laurea sì, laurea no. Dubbi e miti da sfatare

L’incarico a Lino Banfi di Commissario Unesco ha costituito l’ultima occasione per riaprire la contesa sull’opportunità e la convenienza di prendere una laurea. Gli argomenti dei detrattori, che si appoggiano sulla ricorrente e scontata domanda “ma a cosa serve?” sono sostanzialmente tre: uno, di tipo pratico, sintetizzabile nella sua scarsa utilità ai fini delle offerte lavorative; uno più generale, quasi esistenziale, che si affida alla convinzione che in Italia “i dottori sono troppi”; uno infine, educativo-formativo, che vede negli studi prolungati un ostacolo al raggiungimento rapido di una preparazione tecnica e concreta verso il lavoro.

Le prime due affermazioni, molto riduttive ed essenziali, partono da una conoscenza distorta della realtà. Non è vero che un laureato ha le stesse possibilità di trovare lavoro di un non laureato. Il tasso di disoccupazione dei laureati dopo cinque anni dalla laurea è decisamente inferiore rispetto alla media nazionale. Anche la seconda affermazione si basa su una conoscenza distorta: l’Italia, per numero di laureati, è in Europa stabilmente agli ultimi posti, con una percentuale ampiamente inferiore alla media continentale.

La terza considerazione espone al giudizio ragionamenti più ampi che mettono in discussione il modo stesso in cui la scuola deve preparare gli allievi a entrare nel mondo del lavoro. Un insegnamento tecnico-pratico specifico accelera sicuramente i tempi della formazione, indirizza però verso competenze molto orientate che, difficilmente, potranno essere riversate, in un secondo momento, su attività diverse e quindi, qualora mutassero le esigenze del mercato, spese con buon profitto. Da questa considerazione emerge la scelta, che con costante periodicità viene posta all’università, se l’orientamento accademico deve privilegiare i settori dove l’imprenditoria, soprattutto locale, offre le maggiori occasioni di impiego, o se, invece, deve impegnarsi prevalentemente a preparare cittadini pronti e capaci ad adattarsi a condizioni mutevoli, e quindi solidi sul piano teorico e metodologico. Soprattutto nell’attuale situazione di incertezza economico-strutturale, ritengo che la seconda linea formativa sia sicuramente da preferire e, personalmente, considero inoltre che una buona preparazione umanistica sia utile anche a chi sceglie di orientare le sue competenze professionali verso campi scientifico-tecnologici. Le università devono preparare professionalmente, ma non devono dimenticare il loro dovere di preparare cittadini di un mondo globale. “Sapere”, “saper fare” e “saper essere” sono i principi alla base del lavoro accademico e, sempre più, va salvaguardata la dimensione culturale dello studente-cittadino, futuro laureato, futuro cittadino-lavoratore, per accompagnarlo nel percorso di approfondimento del suo sapere.

Il cittadino colto è una ricchezza, in quanto è dotato degli strumenti per affrontare con piena consapevolezza i problemi specifici, proprio perché sa anche come inquadrarli in una visione ampia, rivolta al futuro. La laurea costituisce pertanto l’occasione per migliorare la condizione dei più deboli e ridicolizzarne l’utilità proietta danni proprio verso chi è socialmente meno garantito. I limiti e gli scompensi che talvolta soffocano l’università sono noti e vanno sanati, però questo non può annullare il valore del titolo: un paese che ha molti “dottori” esprime sicuramente un potenziale maggiore di quello che ne ha pochi.

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