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Una patente per governare? Perché l’idea di Tinagli è bizzarra

Che il mito dell’onestà in politica fosse un’idea banale lo disse e scrisse Benedetto Croce. Che altrettanto possa dirsi, sempre in politica, della competenza, a me pare evidente. Fa perciò meraviglia che questo riaffiori oggi con molto rumore di grancassa nel dibattito pubblico, non solo italiano. Persino una accreditata studiosa e politica come Irene Tinagli si sente in dovere non solo di scrivere su “La grande ignoranza” (è il titolo del suo ultimo libro pubblicato da Rizzoli), ma anche, apprendo dalle pagine del Corriere della Sera di oggi, di proporre la bizzarra idea di dare un patentino o un certificato, previo esame, a chi vuole svolgere attività politica.

Ora, a parte che il problema più evidente è di chi sarebbe abilitato a dare questo patentino, e secondo quali criteri, ciò che qui emerge a mio avviso è una incomprensione di fondo di cosa sia la politica. La quale, invece che essere ascritta alla legittima lotta fra gli interessi e i valori che contraddistingue e tiene in vita gli umani, viene elevata al ruolo di realizzatrice di idee e valori. Un’idea che ha già fatto le sue tragiche prove nella storia umana tanto da indurci a tenerci alla larga da ogni suo anche lontano surrogato. Ciò che è vero in punto di dottrina, lo è anche in quello di fatto. Tutte le volte che gli intellettuali o i “competenti” hanno preso in mano le leve del potere, se la son cavata generalmente sempre molto peggio dei comuni mortali.

Quello della competenza in politica è una specie di platonismo politico, un’idea illuministica che finisce per proporre, in modi più o meno soft, quell’ideale costruttivistico già ampiamente messo in discussione dagli autori liberali. Basti pensare alle magnifiche pagine di Friedrich von Hayek in cui viene spiegato come la conoscenza sia distribuita fra gli uomini e come non possano esserci degli individui o dei gruppi che riescano a raccoglierla tutta in sé e perciò delegati a ergersi sopra tutti gli altri. Verrebbe voglia di parlare, con Giambattista Vico, della “boria degli intellettuali” che, autocertificandosi come i migliori, si pongono al di sopra della comune umanità.

Se perciò chi è al potere non ci piace e lo riteniamo “incompetente”, non ci resta che attrezzarci a opporre alla sua forza la nostra, coalizzandoci con chi la pensa come noi o persuadendo i più. Non ci resta che fare politica. Se si esce da questa dialettica, si esce fuori dalla politica e anche dalla vita. Si esce fuori dalla democrazia.

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