Questo paese, nonostante tutto, si meriterebbe un dibattito di più alto livello. La recessione è un fatto, non un’opinione. Eppure, gli sconfortanti dati di ieri sono stati letti esclusivamente come un’occasione di propaganda, da parte di tutti. E sin troppo facile distribuire le responsabilità della terza (!) recessione in pochi anni, determinata da una contingenza mondiale, ma anche da una clamorosa disattenzione ai temi dell’impresa e dello sviluppo. Quest’ultima bordata alla crescita, ricordiamolo bene, faccenda tutta interna…
Altrettanto fuorviante, però, risulterebbe cavarsela con un semplicistico “prima si andava e ora rallentiamo”. La malattia viene da lontano: quando tutto cresce, l’Italia cresce meno degli altri. Quando tutto frena, l’Italia frena più degli altri. E questo accade da oltre vent’anni. Una considerazione banale, della quale quasi mi scuso, che dovrebbe spingere tutti a smetterla con la sterile propaganda. Viceversa, il balletto di ieri, fra le accuse di Di Maio e il contrattacco di Renzi, sono uno spettacolo in cui solo l’inutilità pareggia la pretestuosità.
Stiamo ai fatti: il governo in carica è andato all-in su due provvedimenti, che secondo la stragrande maggioranza della comunità economico-finanziaria non potranno che avere un impatto del tutto marginale. Le stime più ottimistiche non superano lo 0,2%, sul Pil 2019. Questa è una scelta politica, che diventa responsabilità davanti a tutto il paese. Anche quella parte piuttosto consistente, che non sarà interessata né da quota 100, né dal reddito di cittadinanza. Una responsabilità che azzera la polemica e chiama alle decisioni da prendere.
Si può semplicemente attendere, non far nulla e sperare che le previsioni di esperti e organismi vari siano clamorosamente errate. Si può, ma non è bello ed è pure pericoloso. Andasse male, non ci sarebbe tempo per invertire la rotta. Chiunque abbia a cuore i destini dell’Italia e non di una sola parte, non può stare a questo gioco del cerino. Merita delle risposte, almeno idee e suggerimenti, per affrontare una fase delicata. Che la “colpa” di queste difficoltà non sia solo nostra, è un altro elemento buono per qualche litigata a mezzo stampa. La sostanza non cambia: rimettiamo al centro del dibattito lo sviluppo del lavoro e dell’impresa e forse anche la domanda interna riprenderà a crescere, spinta non dalle mance (80 € compresi), ma da un elemento finito incredibilmente fuori moda: la soddisfazione di fare, realizzare qualcosa per sé e per gli altri.
Opportunità e crescita personale sono il carburante di un sistema economico sano e competitivo. Qualcuno avrà il coraggio di dire che bisogna lavorare di più e meglio? Qualcuno avrà il coraggio di accantonare arzilli pensionati sessantenni e navigator (tanto li avremo lo stesso), per parlare di chi lavora, produce e magari si reinventa?
L’Italia che lavora (anche per gli altri) attende fiduciosa. Risparmiatele almeno il dibattito da osteria.