C’è un elemento di novità nelle reazioni del mondo politico all’arresto del padre di Renzi per una storia di società di comodo e fatture false, che il caso ha voluto coincidesse con il voto sulla piattaforma Rousseau a favore della non autorizzazione a procedere per Salvini sul caso Diciotti. Fino ad oggi, in effetti, lo schema che si ripeteva nel mondo politico, anche quando la faccenda giudiziaria riguardava il parente di un leader e non direttamente lui, era più o meno questa: garantisti con tanti distinguo se ad essere imputato era uno del proprio campo, giustizialisti nel caso contrario. Questa volta, invece, non abbiamo assistito a nessuna parola da parte dei protagonisti, nemmeno e soprattutto fra i Cinque stelle, che suonasse come una strumentalizzazione della vicenda giudiziaria in chiave politica: nessuno ne ha approfittato per gioire, per usare l’espressione di Salvini. Se a questo aggiungiamo l’altro elemento della giornata, cioè che nei Cinque Stelle lo spirito giustizialista, che pure è stato ed è in buona parte nel codice genetico del Movimento, non ha prevalso sulla vicenda Diciotti: né a livello delle classi dirigenti né a quello della base votante (per quanto poco rappresentativa possa quest’ultima essere considerata), non possiamo che fare un’ulteriore considerazione. E cioè che, nonostante la presenza ancora forte di una ala “travaglista”, l’esperienza di governo sta gradualmente facendo maturare il Movimento, nei fatti concreti se non proprio ancora nella retorica.
Certo, quella di far votare la base può essere considerata una sorta di incapacità dei leader, in primo luogo del vicepremier Di Maio, di assumersi fino in fondo le proprie responsabilità. Tuttavia che in questo caso la responsabilità non venga scaricata sui magistrati, che la politica non abdichi al proprio ruolo come quasi sempre ha fatto nel recente passato, mi sembra già un elemento molto significativo, una buona notizia. Forse, senza che ce ne accorgiamo, poco alla volta il sistema politico sta trovando nuovi equilibri (e nuove classi dirigenti) per superare quella interminabile transizione che nel nostro Paese è iniziata addirittura trenta anni fa, verso la fine della prima Repubblica.
La cifra che ha contraddistinto gli ultimi decenni è stata proprio quella del giustizialismo, con una classe politica sulla difensiva e magistrati, più o meno politicizzati, prontissimi a riempire gli spazi che si erano aperti. Quella giustizialista è stata una vera e propria rivoluzione, cruenta come lo sono sempre le rivoluzioni: ha spazzato via, senza troppi distinguo, una classe politica che aveva tanti difetti ma anche meriti non indifferenti, tanto più considerevoli se si pensa che aveva operato in un sistema bloccato. Tutte le forze politiche della seconda Repubblica sono nate da quella rivoluzione, fino da ultimo ai Cinque stelle. Quella che però è mancata, e manca ancora in verità, è una cultura politica all’altezza dei nuovi tempi. Che essa si crei attraverso lunghi travagli e contraddizioni, e non a tavolino, è evidente a chiunque abbia un minimo di senso storico. I travagli interni al Movimento non possono che essere i benvenuti se servono a far maturare fra mille contraddizioni posizioni come quelle che si sono espresse ieri sui due fronti Renzi–Salvini.