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Ecco perché l’analisi costi-benefici sulla Tav è giuridicamente irrilevante

Genova, tav

La Torino-Lione (comunemente Tav) è un’infrastruttura che fa parte di un corridoio europeo approvato dalle istituzioni comunitarie attraverso un atto legislativo specifico, il Regolamento n. 1315/2013. Sulla base dell’art. 170 Tfue e del principio di coesione, gli Stati membri hanno condiviso la necessità di realizzare alcuni assi di trasporto che consentissero a imprese e cittadini di attraversare il territorio dell’Unione europea senza mai cambiare treno, per ragioni di inadeguatezza infrastrutturale. Si tratta della cosiddetta coesione che attua il diritto alla libera circolazione di imprese, lavoratori e persone all’interno dell’Unione.

L’obbiettivo è quindi di carattere sovranazionale ed è per questo che, sulla base del principio di sussidiarietà, è competenza dell’Unione europea (e non degli Stati membri) legiferare in materia e decidere quali sono gli assi sovranazionali che meritano di essere realizzati. Proprio per prendere questa decisione, come accade per ogni atto legislativo comunitario, il Regolamento 1315/2013 è stato sottoposto a numerose analisi (incluse le analisi costi benefici) prima della sua approvazione, ivi inclusa una consultazione pubblica di tutti gli stakeholder e cittadini interessati, divulgata attraverso il sito internet dell’Unione europea.

Tale analisi aveva incluso anche il Corridoio Mediterraneo (Lisbona-Kiev) di cui fa parte la Tav così come, ad esempio, il Porto di Trieste. La decisione di realizzare il Corridoio Mediterraneo prende le mosse, quindi, da un’analisi che non si limita all’Italia o alla Francia, ma include tutti i paesi dell’Unione europea in termini di crescita economica, coesione sociale e diritto alla mobilità. È per questo che l’analisi costi benefici italiana non solo non ha alcuna rilevanza giuridica, ma parte proprio da un presupposto sbagliato: considera i costi e benefici per l’Italia rispetto alla realizzazione di un’opera quando, invece, ciò che verrebbe a mancare (in caso di stop) è un intero corridoio europeo che va da Lisbona a Kiev.

È di tutta evidenza che le ripercussioni in termini prospettiche si riverberano su tutti i nodi del Corridoio, ivi inclusi quelli italiani. Si pensi, ad esempio, a Trieste che dovrebbe rinunciare ad essere un porto core, ossia l’hub del Corridoio Mediterraneo, con la conseguenza che tutti i progetti infrastrutturali e di innovazione legati al porto verrebbero meno.

A questo scenario va aggiunto lo sfondo giuridico. Sia chiaro che gli Stati membri sono destinatari di una norma ad effetto diretto (il Regolamento n. 1315/2013) che li obbliga a realizzare i corridoi europei. La rete di corridoi è suddivissa in due parti: la rete “core” e la rete “comprehensive”. La rete “core” deve essere realizzata entro il 2030 mentre la rete “comprehensive” deve essere realizzata entro il 2050. La Tav fa parte della rete “core” e, persino se continuassero i lavori (o cominciassero), non avremmo certezza di poterla realizzare in dieci anni; figuriamoci se ora subisce una nuova verifica del tracciato (l’ennesima!) oppure se cominciano a instaurarsi contenziosi.

Proprio su quest’ultimo punto infatti l’analisi costi benefici individua le penali contrattuali con le imprese come conseguenza della mancata realizzazione e la stampa individua la perdita di finanziamenti già ottenuti dall’Ue. Purtroppo, va considerato che non è tutto: infatti l’art. 7 del Regolamento n. 1315/203 pone l’obbligo agli Stati membri di realizzare l’opera senza se e senza ma.

Di conseguenza chiunque possa subire un danno economico, anche prospettico, dalla mancata realizzazione della Tav (anche come sistema produttivo o portuale) sarebbe legittimato a citare la Repubblica italiana davanti al giudice per risarcire il relativo danno.

Insomma, sbagliati i presupposti dell’analisi costi benefici e assolutamente incerte le conseguenze.

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