Il piano di privatizzazioni da 18 miliardi di euro da realizzare entro il 2019 che sta studiando il ministro dell’Economia Giovanni Tria è alquanto irrealistico. “Facendo due conti, se il Mef cede tutte le sue partecipazioni residue in Eni, Enel, Poste, Leonardo, si può fare”, spiega a Formiche.net Emilio Barucci, professore di Matematica Finanziaria presso il Politecnico di Milano, direttore del QFinLAb, Quantitative finance lab e autore di un volume di successo “Chi salverà la finanza” (Edizioni Egea) dove ripercorre il fallimento della banca d’investimento statunitense Lehman Brothers e, soprattutto, consiglia come si costruisce una buona finanza, capace di mantenere le promesse di essere utile alla società.
Quindi secondo lei è un piano poco attuabile con le attuali condizioni di mercato?
Ipotizziamo che il governo di punto in bianco decida di vendere tutte le sue partecipazioni, sarà impossibile portarle a termine entro l’anno. Il mercato difficilmente digerisce più di un’operazione alla volta. Dobbiamo poi aggiungere che c’è un problema di credibilità del progetto e appetito da parte degli investitori per acquistare quote di società italiane. Il rischio è che lo facciano soltanto a sconto. Quanto alla cessione degli immobili, la storia ci insegna che la loro valorizzazione è un processo molto complesso e lungo, tutti i tentativi di valorizzazione immediata del patrimonio immobiliare si sono tramutati in una svendita.
Anche qui: cosa vendere? Cosa potrebbe fare gola agli investitori?
Eni, Enel e Leonardo sono sicuramente dei players interessanti, anche Poste potrebbe far gola. In tutti questi casi, senza il controllo dello Stato, non vedo però un futuro autonomo per loro, il destino sarebbe di finire per essere comprate da un’altra azienda internazionale.
Quali errori evitare? Ricordo che lei ha scritto molto su come sia stata fallimentare, ad esempio, la privatizzazione di Telecom…
Beh su questo abbiamo imparato. Ci sono solo tre modelli in campo: società quotata con una partecipazione di controllo pubblica (un modello che a differenza di quanto si pensi può essere virtuoso); società a controllo privato e public company. Il modello nocciolino duro (patto di sindacato o quant’altro) non è stabile nel tempo, stesso discorso per le acquisizioni a debito. Ricordiamoci che in Italia non abbiamo tradizione di public companies.
Che ruolo potrebbe avere Cassa Depositi e Prestiti che ha già in pancia molte quote di aziende?
Se entra in gioco Cdp, come del resto avvenuto in passato, tutto cambia. Diventa una privatizzazione di facciata, bisogna vedere se la Commissione Europea lo permetterà e ci farà computare la transazione ai fini della finanza pubblica. In questo modo si porterebbe a compimento quanto paventato da molto tempo: che Cassa Depositi e Prestiti si trasformi in una nuova Iri (ovvero l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, ente pubblico italiano messo in liquidazione nel 2002, ndr). La quotazione delle aziende in borsa è comunque una garanzia, il limite sarebbe che la gestione da parte della holding potrebbe non essere efficace.
Le cartolizzazioni non hanno mai avuto un gran successo, eppure potrebbero rispuntare…
Come detto penso che non andrebbero molto lontano. Sarebbero soldi buttati.
Intanto professor Barucci bisogna fare i conti con la realtà: recessione tecnica, stime Ue con un Pil +0,2% e lo spread che è tornato a 280 punti base…
La situazione è molto seria, vero è che c’è un rallentamento a livello globale ma i danni di sei mesi di fibrillazioni e di una manovra economica sbagliata nei fondamenti sono incalcolabili. In primo luogo abbiamo otto mesi di spread elevati che hanno scoraggiato gli investitori ad investire in Italia e poi una manovra espansiva fatta così male non può che portare a buttare via risorse preziose. Il conto sarà salato e lo pagherà, come al solito, chi sta peggio.