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Cosa hanno in comune Bolsonaro, Salvini e Trump

Mi pare che i leader che siamo ormai abituati a chiamare sovranisti – quali Trump, Bolsonaro o Salvini (solo per citarne alcuni) – abbiano in comune soprattutto un elemento negativo: rappresentano una reazione agli ideali individualistici, progressisti e internazionalistici che sono fioriti in particolar modo negli anni 90, dopo la fine della Guerra fredda, e che negli ultimi trent’anni hanno egemonizzato la cultura e, in misura minore, anche la politica nella maggior parte delle democrazie avanzate.

La fine del sistema bipolare ha amplificato la convinzione che fosse possibile costruire un mondo pienamente individualistico, liberale e globalizzato, a bassa intensità politica ma regolato dal diritto e dal mercato. Il sovranismo è una reazione identitaria a questo tipo di tendenza, con origini e peculiarità che variano da Paese a Paese.

Il movimento di Bolsonaro, ad esempio, fonda le sue radici anche nell’inchiesta giudiziaria Lava jato che ha portato alla condanna dell’ex presidente Lula. Il sovranismo di Trump è in qualche modo facilitato dal ruolo egemone degli Stati Uniti, mentre più complicata è la vita dei sovranisti italiani, dovendosi questi muovere in un Paese di gran lunga più fragile e dipendente dal contesto internazionale.

Insomma, pur senza forzare troppo e tenendo conto delle notevoli differenze nazionali, punti di convergenza tra tali personaggi politici non mancano di certo. La collaborazione internazionale dei nazionalisti è ovviamente sempre molto complicata – lo sappiamo almeno dagli anni Trenta del secolo scorso. Ma sostenere aprioristicamente che un’alleanza tra nazionalisti sia resa del tutto impossibile dalla divergenza degli interessi nazionali, come fanno alcuni, appare una tesi fortemente strumentale: degli ambiti di collaborazione sono sempre possibili – se non altro in negativo, al fine di distruggere o indebolire i luoghi del multilateralismo e della convergenza globale. Peraltro, non è che tra i partiti e i movimenti del fronte europeista manchino i contrasti: pensiamo ad esempio a quanto sia difficile per gli europeisti italiani sostenere Macron, di fronte alle sterzate nazionaliste del numero uno dell’Eliseo.

Anche l’attuale demonizzazione dei movimenti sovranisti mi sembra un’operazione sciocca, pure se politicamente comprensibile. Il successo elettorale dei nazionalisti ha ragioni profonde che devono necessariamente essere prese in considerazione. La tesi secondo cui gli elettori sarebbero semplicemente stupidi o irrazionali non è solo scarsamente condivisibile, ma anche poco lungimirante. Si dimostra infatti in tal modo una scarsa comprensione dei sentimenti, delle speranze e delle paure che muovono l’elettorato.

La crisi dei partiti tradizionali si sostanzia nella loro incapacità di rappresentare le esigenze e le emozioni degli elettori. L’utopia cui ci siamo abbandonati negli ultimi trent’anni, secondo cui gli individui non sarebbero altro se non portatori di diritti e soggetti economici che si muovono in un mondo in cui il potere politico gioca un ruolo di secondo piano rispetto al diritto internazionale o all’economia, ha creato un enorme sentimento di ribellione che i partiti tradizionali non sono stati capaci di gestire.

Il processo è stato poi aggravato dall’influenza di Internet, dall’accelerazione del tempo storico, e dalle sfide globali cui la democrazia rappresentativa non riesce più a fare fronte. Gli elettori, non ottenendo più dai partiti tradizionali risposte adeguate alle proprie istanze ed esigenze, si sono riorientati su soggetti politici alternativi. Ed è su queste istanze ed esigenze che ci si dovrebbe concentrare, non sulla demonizzazione dei sovranisti. La modernità ha portato con sé una grande promessa: il controllo da parte dell’uomo sulla propria vita. Con l’avvento di Internet, poi, si è dato alle persone la possibilità di avere un maggiore controllo sulle informazioni: accendi il computer e ti trovi di fronte a una quantità infinita di notizie da cui attingere.

La promessa di un controllo sempre maggiore era insita anche nella globalizzazione: sarai sempre più ricco, avrai sempre più strumenti, tecnologie e possibilità di movimento. Era insomma una grande utopia, come lo erano, se vogliamo, il comunismo e le altre grandi ideologie totalitarie del XX secolo.

La modernità, con lo sviluppo economico, tecnologico e industriale che l’accompagna, ci ha dato senz’altro un controllo maggiore sulla nostra quotidianità. Nessuno può negarlo. Tuttavia, essa ha creato anche le condizioni per l’emergere di problemi talmente complessi che niente e nessuno sembra più in grado di comprenderli e affrontarli. La modernità, così, con la mano sinistra ha tolto all’uomo qualunque quella sensazione di essere in controllo che gli aveva appena dato con la mano destra. Faccio un esempio stupido, tanto per capirci: vaccini e antibiotici aumentano indubbiamente la capacità di controllo degli esseri umani sul proprio ambiente. Al contempo, però, sono anche una delle cause del boom demografico che contribuisce ad aumentare l’incontrollabilità del globo.

Questo tradimento dell’illusione utopica del controllo assoluto è esattamente ciò che riempie di rabbia le persone e genera le reazioni cui stiamo assistendo in quest’epoca storica. Reazioni profonde, molto serie e che, a mio avviso, non si esauriranno tanto presto.

(Articolo pubblicato sulla rivista Formiche)

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