Da cosa fuggono le persone? Dalla fame, dalla povertà e da condizioni di vita indecorose che rendono precaria la sopravvivenza. A quest’ultimo aspetto hanno pensato i promotori dell’UniCamillus, un’università romana laica ma con un padre ispiratore religioso, San Camillo protettore delle professioni sanitarie. L’UniCamillus non è un’università medica come tutte le altre perché ha scelto di creare curricula specializzati in patologie che flagellano i Paesi in via di sviluppo divenendo fattori ostativi allo sviluppo economico e umano. Di tutto questo ne abbiamo parlato con Gianni Profita, rettore di UniCamillus.
La vostra università, l’UniCamillus, si occupa eminentemente di patologie di Paesi in via di sviluppo e si rivolge anche a ragazzi, studenti, che arrivano da quella zona del mondo. Non avete paura di finire anche voi nel calderone della “mangiatoia immigrazionista”?
No, anche perché francamente non so cosa sia. Forse non leggo i giornali con la dovuta attenzione, in ogni caso credo che – se è a questo che si riferiva – anche il nostro ministro dell’Interno approverà il nostro progetto. Noi ci rivolgiamo, infatti, a giovani provenienti da Paesi in via di sviluppo selezionati con cura per la loro capacità e motivazione. È un progetto che non ha nulla a che vedere con le correnti migratorie, noi cerchiamo di affrontare un problema che esiste in molte aree del mondo: la carenza di salute. Ci sono Paesi come il nostro in cui c’è un’eccellenza scientifica e sanitaria che assiste tutti, mentre ce ne sono altri in cui non c’è quasi nulla. Il nostro è un progetto molto semplice: promuoviamo la salute là dove ce n’è più bisogno partendo dai fattori più importanti: il medico, l’infermiere, l’ostetrica, ecc.
Quando avete avviato le vostre attività?
Siamo partiti nel 2009 ma la firma del Decreto Istitutivo dell’Università arriva nel 2017 da parte del ministero dell’Università, esistiamo ufficialmente dal 4 gennaio 2018, quando è stato pubblicato il decreto in Gazzetta Ufficiale. Abbiamo cominciato con le prime lezioni a novembre 2018 e poche settimane fa abbiamo firmato il protocollo d’intesa con la Regione Lazio per lo svolgimento dei tirocini degli studenti presso l’Ospedale dei Castelli. Ma a dire il vero il progetto nasce molto da lontano. Inizialmente avevamo pensato di far partire l’università proprio in Africa, in Kenya, un Paese bellissimo in cui si parla inglese, c’è il mare, ci sono parchi meravigliosi. Poi però abbiamo scoperto che il titolo di studio in un Paese africano è sostanzialmente valido solo in quel Paese. Quindi sarebbe stato molto difficile far riconoscere il titolo di studio conseguito in Kenya dagli altri nostri studenti non kenioti anche all’estero. Però il paradosso qual è? È che i professionisti laureati nel Nord del mondo scendono dall’aereo e si recano quasi direttamente in sala operatoria. Insomma era necessaria che la scuola medica efficace per i Paesi del Sud del Mondo sorgesse nel Nord del Mondo.
UniCamillus è un’università esclusivamente medica?
Sì, anche se teoricamente possiamo istituire anche altri corsi di laurea perché nel nostro Paese le università non sono specialistiche.
Avete in programma di ampliare l’offerta didattica?
Sì, ma sempre restando nell’ambito medico. Già da quest’anno le lauree nelle professioni sanitarie (infermieristica, ostetricia, fisioterapia, tecnico di laboratori biomedico e tecnico di radiologia) hanno affiancato la laurea in medicina e chirurgia.
Che profili hanno i vostri docenti?
Tutti professionisti selezionati tramite concorso, è necessario che conoscano bene l’inglese perché parte dei nostri corsi sono in lingua. Abbiamo dato spazio a tanti ragazzi, negli ultimi mesi abbiamo completato i concorsi per sette giovani ricercatori, in Italia non è una cosa da poco. E tra poco ne indiremo altri sette. Il prossimo anno passeremo ai concorsi per professore associato e così via. La nostra università non è un’iniziativa che porterà beneficio solo nei paesi terzi ma porta beneficio anche al territorio, ne siamo particolarmente orgogliosi.
Invece qual è il profilo dei vostri studenti?
L’università si rivolge a giovani non comunitari e comunitari. I primi sono reclutati attraverso un concorso di ammissione direttamente nei Paesi di provenienza, con lo stesso sistema utilizzato dalle università mediche inglesi. Insomma c’è una selezione a monte molto rigida che permette di far arrivare in Italia ragazzi davvero motivati e preparati ad affrontare un percorso di studio duro quale quello delle lauree sanitarie. Ciò di cui siamo molto orgogliosi è che a questi studenti paghiamo tutto attraverso il “prestito d’onore”, una modalità diversa dalla borsa di studio. Chi riceve il prestito sottoscrive un contratto nel quale, a fronte di una copertura totale dei costi per lo studio e per la vita qui in Italia promette, una volta conseguita la laurea, di rientrare nel suo Paese o in un altro scelto di comune accordo con l’UniCamillus per almeno tre anni. Viceversa si impegna a restituire i fondi ottenuti. I secondi, i ragazzi comunitari, sono selezionati con concorso nazionale secondo le norme. Speriamo che si iscrivano alla nostra università giovani che decidano di dedicare, se non tutta, ma almeno una parte della loro vita professionale a favore dei Paesi in via di sviluppo. Non a caso una parte dei nostri curricula sono dedicati a patologie presenti in Paesi in via di sviluppo e la nostra specificità è che diamo molto spazio a malattie come malaria, Hiv, Dengue e così via.
Sono previste anche attività di ricerca in questi campi?
Certo, abbiamo attivato sin da subito dei ricercatori in questi campi. Abbiamo in programma di implementare progetti di ricerca nel Corno d’Africa e di questo ne ho parlato anche nel corso di un incontro in Farnesina, raccogliendo grande soddisfazione.
Che prospettive di carriera hanno i ragazzi che si laureano presso l’Unicamillus?
Un medico laureato in Italia che lavora in Italia ha davanti a sé una carriera impegnativa e prestigiosa. Tutto questo è amplificato, e di molto, se va a svolgere la sua professione in un contesto come Port-au- Prince dove professionalità̀ di questo tipo latitano. Ecco, l’idea di fondo è dare a questi ragazzi la possibilità di tornare nei propri Paesi con una professionalità tale da assumere un ruolo importante nella propria comunità.
Io le devo fare una domanda un po’ antipatica, negli ultimi tempi si è diffusa la paura del ritorno in Europa di malattie ormai sconfitte. Secondo lei è davvero un rischio?
È una sciocchezza colossale. Lo sa chi ha portato l’Hiv in Europa? Uno steward europeo. In ogni caso posto che si individui qualche malattia riconducibile a Paesi in via di sviluppo non arriva certo con i poveri cristi sbarcati a Lampedusa – merci involontarie nelle mani di trafficanti di uomini – ma, nella maggior parte dei casi, da europei di ritorno da qualche viaggio esotico. A tal proposito mi piace sottolineare che il nostro è un progetto da sistema paese. Questi giovani verranno qui, impareranno l’italiano, conosceranno altri ragazzi italiani, si integreranno e saranno grati alle eccellenze italiane.
Una specie di politica estera fatta attraverso la salute.
Esatto, la cosa più nobile che possa esserci. Già adesso sono tanti i medici o professionisti della sanità che parlano italiano e questo grazie alle missioni religiose o al volontariato laico. E poi non è solo un progetto politico ma anche economico, ragazzi stranieri che in futuro assumeranno posizioni apicali nei loro Paesi e che parlano italiano è molto probabile che “consumeranno” anche italiano, acquistando, ad esempio, le tecnologie italiane per i loro ospedali.
Avete una stima del numero di studenti che riuscirete a formare nei prossimi 5 anni?
Sì, assolutamente. Sono 450 studenti all’anno, l’anno prossimo saranno 900 e così via. A regime saranno circa i 3.500 studenti, con circa 500 laureati ogni anno.
Un progetto come il vostro potrebbe essere utile anche per limitare i flussi migratori irregolari?
Da cosa fuggono le persone? Da condizioni di vita insopportabili, quindi dalla fame, e dalla mancanza di cure mediche. La salute è un aspetto fondamentale della vita delle persone. Se ci si ammala e si soffre o si vedono morire i propri cari intorno a sé l’istinto di sopravvivenza ti porta a scappare. Ora i nostri numeri non sono tali da risolvere l’immane dramma di questi Paesi, ma la direzione è quella: portare la salute dove ce ne è bisogno. E poi occorre considerare l’effetto moltiplicatore del benessere esercitato da una professionalità come quella medica.
Chi vi sostiene economicamente in questo progetto?
Noi siamo partiti più di dieci anni fa e da allora lavoriamo nel fundraising scientifico. Disponiamo di risorse finanziarie tali da consentire la vita florida del progetto per decenni. Al di là di questo c’è una generosità nascosta degli italiani che lascia senza parole. Moltissimi professionisti della sanità che svolgono attività di volontariato in Africa hanno contribuito alla dotazione finanziaria dell’UniCamillus.