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Verso l’eutanasia del Parlamento

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In questa legislatura, stiamo assistendo ad un attacco diretto all’istituzione parlamentare che si sviluppa su tre direttrici: un tentativo di valorizzazione del referendum con una correlativa restrizione degli spazi di decisione delle camere; un’accentuata compressione del dibattito parlamentare; un tentativo di restringere, e in prospettiva di sopprimere, la libertà di mandato dei singoli parlamentari sancita dall’art. 67 della Costituzione.

La Camera dei deputati ha detto il primo sì alla riforma costituzionale che introduce il c.d. referendum propositivo. Se la riforma giungerà ad una definitiva approvazione, non saremo di fronte ad un mero rafforzamento degli istituti di democrazia diretta all’interno della democrazia rappresentativa voluta dai nostri costituenti, ma di un vero e proprio mutamento di sistema, che potrà condizionare pesantemente il ruolo del Parlamento.

Nonostante alcuni miglioramenti apportati al progetto iniziale durante l’esame in commissione, permangono troppi aspetti negativi su punti specifici e rimane la pericolosità dell’idea di democrazia che lo anima.

In primo luogo, in nessun paese di democrazia avanzata è previsto un referendum approvativo di leggi ordinarie statali o federali che originano dall’iniziativa popolare. Una ragione ci deve pur essere. Un istituto del genere si pone in concorrenza con la funzione legislativa del parlamento e può delegittimarlo, compromettendo uno dei cardini della democrazia rappresentativa.

Ma anche le modalità procedurali previste non sono condivisibili. Di fronte ad un’iniziativa legislativa popolare, le camere saranno obbligate ad esaminarla e non potranno evitare il referendum su di essa se non adeguandosi o, al più, apportando “modifiche meramente formali”. Se non decidono o se approvano un testo diverso nella sostanza si va alla prova referendaria che, di fatto anche se non formalmente, contrappone l’iniziativa popolare all’orientamento dei parlamentari. La funzione legislativa parlamentare ne risulterà pesantemente condizionata anche perché non è fissato un limite massimo al numero di iniziative proponibili, ma si rinvia una tale determinazione ad una successiva legge ordinaria di attuazione.

Nonostante la previsione di un giudizio preventivo della Corte costituzionale sulla costituzionalità dell’iniziativa, non sono esplicitamente precisati limiti di materia che pure sono necessari. Consentire una tale procedura per leggi di spesa, tributarie, in materia penale, in materia di rapporti internazionali oppure in materie che richiedono conoscenze tecniche approfondite e specifiche è un evidente azzardo perché l’emotivo umore popolare può prevalere in decisioni che esigono ponderazione ed una valutazione ad ampio raggio degli interessi in gioco.

Il referendum, con la sua contrapposizione binaria tra un sì e un no sull’intero progetto di iniziativa popolare, è uno strumento che fa tabula rasa della dialettica maggioranza – opposizione che si instaura all’interno delle aule parlamentari, impedisce il compromesso tra diverse visioni, che è una delle caratteristiche della democrazia rappresentativa.

È questo il nocciolo della questione indipendentemente dai singoli, aspetti specifici della riforma costituzionale. Dietro lo specchietto per le allodole di favorire la partecipazione dei cittadini e di dare voce al “popolo”, si nasconde, e nemmeno tanto, un disegno volto a mettere in ginocchio il Parlamento e scardinare la democrazia rappresentativa, un principio fondamentale della nostra Costituzione. Ciò si farebbe per aprire la strada ad una mitica democrazia “diretta” in cui è il popolo a decidere e non le élite. In realtà, in ogni regime politico si formano naturalmente delle élite e ciò accadrebbe anche in una democrazia caratterizzata da istituti di c.d. democrazia diretta. Gruppi ristretti, lobby finanziariamente potenti potrebbero condizionare l’esito dei referendum dando all’istituto una connotazione plebiscitaria, che è quanto di più lontano dalla vera democrazia. Nei referendum formulazione della domanda e tempistica influenzano il risultato e tutto ciò è in mano ai movimenti politici o gruppi che sono in grado di raccogliere le firme per attivare il procedimento. Non si tratta di rifiutare l’istituto del referendum in quanto tale, ma di circoscriverne la portata a temi per i quali esso sia adatto e definire modalità che non si prestino ad abusi.

Come affermava Ralph Dahrendorf già nel 2001, la pratica dei referendum (se eccessiva, preciserei dal mio punto di vista) è un’abdicazione della politica dal suo dovere di dibattito democratico, al quale si sostituisce un’ “istantanea” dell’opinione popolare.

Quanto al secondo aspetto menzionato all’inizio, è sufficiente ricordare il persistere e l’aggravarsi della pratica della fiducia su maxi-emendamenti governativi presentati all’ultimo momento. La discussione del bilancio ha assunto toni surreali con i parlamentari impegnati a dibattere un disegno di legge che non rispondeva più alla realtà perché il Governo stava ancora trattando con l’Unione europea. E l’esito della trattativa è poi confluito nel maxi-emendamento.

Intanto, viene prospettata un’altra importante compressione delle capacità del Parlamento di incidere su una questione vitale dell’assetto della nostra Repubblica. Mi riferisco alla procedura di approvazione delle intese tra Governo e regioni in attuazione dell’articolo 116 della Costituzione per un’autonomia regionale differenziata e rafforzata. Come è noto tre regioni (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna) hanno avviato con il Governo le trattative per giungere a tale tipo di intese.

Quel che è grave è l’idea in base alla quale il Parlamento, nell’approvare la legge necessaria per sancire l’autonomia differenziata, possa solo approvare o rigettare nella sua globalità l’intesa senza alcun margine per modificarla. Come se si trattasse dell’autorizzazione a ratificare un trattato internazionale. Si ipotizza cioè un Parlamento tagliato fuori da un reale coinvolgimento nei diversi aspetti specifici di una decisione così complessa e messo di fronte all’alternativa tra accettare o mandare a monte ogni intesa.

Infine, quanto al divieto di mandato imperativo, è nota la propensione del M5s a circoscrivere la libertà nell’esercizio delle funzioni che l’articolo 67 della Costituzione assegna ad ogni singolo parlamentare. È tuttavia opportuno evidenziare il fatto che il M5S per decidere l’atteggiamento da assumere circa l’autorizzazione a procedere richiesta nei confronti del ministro dell’interno Salvini, abbia tenuto una consultazione tra gli iscritti sulla piattaforma Rousseau. Ed ora si afferma che i parlamentari sono vincolati all’orientamento emerso da quella consultazione. Una sorta di referendum su un quesito la cui formulazione ha suscitato polemiche quanto alla sua chiarezza e che è stato poi modificato. Un referendum tenuto su una piattaforma informatica gestita da un società privata, senza alcun serio controllo della veridicità del risultato, con una partecipazione ridotta rispetto al numero di coloro che hanno votato M5S alle elezioni politiche e, comunque esigua, in termini assoluti. In definitiva, un segno poco rassicurante se non inquietante circa i pericoli che corre la democrazia rappresentativa.

Se è vero che in questa contingenza storica il rendimento delle istituzioni parlamentari e della democrazia rappresentativa può essere discusso e criticato, esse rappresentano un patrimonio prezioso per la nostra convivenza civile, che non può essere liquidato per avviarsi verso un confuso populismo dietro il quale può nascondersi il volto di un “autoritarismo informatico”.

 


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