Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

La proposta Bongiorno sui test psicologici per i giudici: perché no?

La ministra della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, ha recentemente espresso la volontà di voler riformare il percorso di accesso alla magistratura, introducendo dei test psicologici (o psicoattitudinali) per stabilire se l’aspirante giudice, oltre ad una adeguata preparazione giuridica, abbia quelle particolari qualità che sono connesse all’esercizio della professione. Il tema non è nuovo: già l’ex Presidente Cossiga, ed esempio, propose nel 2003, provocando durissime reazioni dell’allora Capo dello Stato Scalfaro, di sottoporre i candidati al concorso in magistratura ad un preventivo esame psichiatrico e psico-attitudinale, sostenendo, nella relazione al disegno di legge, che “l’esercizio delle funzioni di magistrato dell’ordine giudiziario, giudice e pubblico ministero incide così profondamente e talvolta irreversibilmente su i diritti della persona e sulla sua stessa vita psichico-fisica che particolare equilibrio mentale e specifiche attitudini psichiche debbono essere richieste per la assunzione della qualità di magistrato e per la permanenza nella carriera”. Siamo di fronte, insomma, a un sempreverde che riemerge periodicamente, scatenando le opposte tifoserie. Lasciando da parte partigianerie e pregiudizi, per sviluppare un ragionamento sul punto è opportuno soffermarsi brevemente sulle modalità di selezione degli aspiranti magistrati e, per estensione, di chi voglia ricoprire ruoli di alta amministrazione e direzione all’interno del sistema pubblico. Per il concorso in magistratura, bandito sulla base di linee programmatiche del Ministero di Giustizia, d’intesa con il Consiglio Superiore della Magistratura, sono previste tre prove scritte in diritto civile, diritto amministrativo e diritto penale, cui si aggiungono ben diciotto materie alla prova orale. Si tratta, come è evidente, di un concorso particolarmente difficile, per il quale è richiesta una approfondita e accurata preparazione giuridica. Allo stesso modo, il novero dei concorsi pubblici per accedere alle pubbliche amministrazioni segue sostanzialmente lo stesso schema di massima, aggiungendo molto spesso una prova preselettiva (che comprende anche test logico-attitudinali e matematici) e la conoscenza della lingua inglese. Tale schema prevede la conoscenza di un nucleo più o meno ampio di materie di riferimento (giuridiche, economiche o amministrativo-contabili) che sono pertinenti alle funzioni da svolgere. Si tratta, dunque, di una modalità di selezione prevalentemente basata sulla conoscenza delle nozioni indispensabili a svolgere determinati compiti, al netto di alcuni novità tese, come nel caso del concorso per dirigenti pubblici organizzato dalla Scuola Nazionale dell’Amministrazione, ad imprimere un carattere maggiormente pratico e manageriale alle prove. Il sapere tecnico è una componente indispensabile ed indefettibile di qualsiasi professione: è inimmaginabile – e preoccupante – un giudice che non padroneggi il diritto penale, un dirigente pubblico che non sappia impostare un decreto di pagamento, un funzionario pubblico che ignori le norme sul procedimento amministrativo. Il punto, tuttavia, è un altro: la perfetta conoscenza del proprio latinorum è sufficiente perché la donna o l’uomo che svolge quella determinata funzione lo faccia al meglio, garantendo, conseguentemente, l’interesse pubblico? La risposta è: molto probabilmente sì, ma non necessariamente e non sempre. Amministrare, ci dice il Devoto-Oli, significa curare enti, attività o beni in modo da garantirne l’efficienza ed il rendimento, ma anche distribuire con oculatezza: entrano in gioco, dunque, elementi che debbono aggiungersi ed integrare il patrimonio della conoscenza, soprattutto quando l’azione del singolo possa avere ripercussioni sostanziali sulla vita degli individui, come accade, con tutta evidenza, per il giudice e per il pubblico amministratore. La questione si riferisce, in altre parole, alle modalità attraverso le quali la conoscenza viene concretamente applicata. Non si tratta, va chiarito, di minare l’autorevolezza o la competenza di chicchessia. È ragionevole tuttavia, interrogarsi su come far sì che le indispensabili funzioni pubbliche professionali proprie di una democrazia siano implementate al meglio, a tutela del sistema come dei cittadini. Ed appare ispirato a comune buon senso l’auspicio che per tali funzioni sia opportuno (necessario, con tutta probabilità) possedere e coltivare doti di equilibrio e relazionali che vanno a completare la preparazione di settore. Chi conosce la dedizione dei tanti servitori dello Stato, uomini e donne, è consapevole che molti mettono quotidianamente in campo un ampio spettro di capacità personali, conoscenza dei dossier e attitudini proprie, affinate on the job. Ma è sempre così? E come fare perché non si affidi la cura delle questioni pubbliche alla ventura che qualcuno squaderni le giuste capacità? Esiste, evidentemente, il tema di come assicurare, per quanto umanamente possibile, che vengano selezionate le persone giuste e che tale selezione non venga costretta al profilo esclusivamente nozionistico proprio del concorso pubblico. Lo Stato, con tutte le sue pecche ed i suoi innumerevoli difetti, funziona: perché non percorrere strade che permettano di farlo funzionare al meglio? Empatia, capacità relazionali, equilibrio, dinamicità, immaginazione sono aspetti che, soprattutto in una società aperta, moderna e policentrica, non possono non essere presi in considerazione. Come, con quali strumenti e attraverso quali garanzie sono le vere sfide. Qui siamo in campo aperto e occorre affrontare la questione con la serietà che merita. Sta agli esperti e alla politica proporre e valutare, ascoltando i diretti interessati, avendo, tuttavia, ciascuno a cuore la migliore tutela del bene comune.

×

Iscriviti alla newsletter