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Bentivogli e Landini: zenit e nadir del sindacato italiano

La costellazione del sindacato italiano non brilla più come qualche anno fa. Da tempo ormai la visibilità delle rappresentanze dei lavoratori, sempre più in difficoltà nel cogliere l’evoluzione del mondo del lavoro, sembra essersi offuscata. Due astri si contendono la volta celeste del sindacalismo nostrano: Landini e Bentivogli. I loro stile opposti sono lo specchio delle loro visioni antipodali del mondo e del sindacato.

Leggo sempre con un certo stupore le dichiarazioni del leader più attivo dell’attuale panorama sindacale, Maurizio Landini. Quelle del neoeletto numero 1 della Cgil non sembrano parole da sindacalista ma da politico, e non proprio al passo coi tempi. Nel suo primo discorso dopo l’elezione a segretario ha affermato che <<la nostra azione deve tornare ad essere quella delle camere del Lavoro di fine dell’800>>. In quel revival del XIX secolo che è stato il suo primo discorso ufficiale alla guida della Cgil, Landini si è prima di tutto occupato di agitazioni, opposizione e resistenza al governo, come se il sindacato esistesse solo per “scioperare”. L’unica proposta delineata in modo chiaro è la richiesta di una tassa patrimoniale, giustificata dal solito slogan antiquato dei “ricchi contro i poveri”. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole. Sinceramente, non mi è parso un discorso illuminante, che prendesse atto dei problemi reali della nostra società occupata ed inoccupata, del lavoro che cambia, delle competenze e delle soluzioni da proporre. Al contrario, vi ho solamente letto la volontà di concentrarsi sul “sindacato” e sulla sua immagine sbiadita.

L’altra stella del firmamento del sindacalismo italiano è tutta un’altra cosa: zenit e nadir. Marco Bentivogli ha un altro stile: non si nutre di slogan ma al contrario cerca di disinnescare boutadesche potrebbero ostacolare il pieno coinvolgimento di tutti gli attori della “vita sociale”. La dialettica del segretario generale della Fim-Cisl rispecchia i contenuti che gli sono spesso costati l’appellativo di “servo del padrone” dai nostalgici della prima rivoluzione industriale. Teorico della convergenza tra le parti, non fa proclami anacronisti ma cerca col dialogo ed il ragionamento soluzioni, senza fanatismi.
Un riscontro del successo di questa buona pratica delle relazioni industriali è arrivato proprio in questi giorni con il rinnovo del contratto di Fca. Dopo quattro mesi di negoziato, Fim-Cisl, Uilm e altre sigle hanno raggiunto l’accordo con l’azienda torinese per rinnovare il contratto collettivo di 87mila operai, ai quali verranno riconosciuti mediamente 145 euro in più al mese nel quadriennio 2019-2022. Unico assente al tavolo negoziale: la Fiom della Cgil di Landini.

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