Skip to main content

Così Pechino cerca di legittimare la Via della Seta con la sua propaganda

coronavirus, Li Wenliang

Il Giornale del Popolo cinese, organo di stampa ufficiale del Partito comunista di governo, ha organizzato una difesa alla Nuova Via della Seta, in cui a parlare a sostegno del grande piano infrastrutturale, che il presidente Xi Jinping considera una parte chiave della sua piattaforma politica, è stato Yang Jiechi, che dirige il Comitato per gli affari esteri del partito.

L’impegno del diplomatico più importante del paese è degno di attenzione. Yang ha detto che sul progetto cinese ci sono molti paesi “prevenuti”, e ha dichiarato che non è uno strumento geopolitico e non porterà a situazioni tipo trappole del debito – ossia, consegnare le infrastrutture pubbliche al governo cinese se non si rispettano le rate di pagamento dei prestiti elargiti. Situazioni che si stanno in realtà già verificando in Pakistan, Tajikistan, Kirghizistan, Mongolia, Laos, Maldive, Gibuti, Zambia, Sri Lanka.

“Tutto dimostra chiaramente una mancanza di obiettività e una buona comprensione dell’iniziativa Belt and Road. È un fraintendimento, un giudizio erroneo e persino un pregiudizio “, ha scritto Yang, ex ministro degli Esteri e ambasciatore a Washington. I giornali governativi cinesi ospitano spesso riflessioni del genere, che nel mondo del giornalismo occidentale potremmo chiamare op-ed, ma che nel sistema informativo di Pechino hanno il compito di dettare, di solito indirettamente, la linea.

In questo caso, è stato spostato un pezzo da novanta delle nomenklatura, e non il classico professore o analista di un’università vicina al Partito, probabilmente anche perché – come ricorda la Reuters – nelle ultime settimane la Nuova Via della Seta (o Bri, con l’acronimo inglese) è stata molto sotto i riflettori. Causa Italia: il governo gialloverde ha infatti portato Roma ad aderire formalmente al progetto, il primo paese del G7 a muoversi verso questa traiettoria, suscitando forti proteste da parte degli Stati Uniti, che hanno spiegato di considerare la mossa come un’eccessiva esposizione politica verso uno tra i principali piani strategici con cui Pechino punta alla vetta del mondo.

C’è anche un’altra tempistica: a fine mese, a Pechino, la Cina terrà il secondo summit internazionale sulla Bri, e sta sfruttando la situazione per muoversi di anticipo. Pubblicità, comunicazione, propaganda: i cinesi puntano ad ampliare il giro anche tramite lo show politico-mediatico organizzato, a cui il presidente del consiglio italiano, Giuseppe Conte, s’è detto disponibile a partecipare. Alcuni dei più stretti alleati della Cina hanno già confermato la loro presenza: tra questi il presidente russo, Vladimir Putin, il primo ministro pakistano, Imran Khan, il presidente delle Filippine, Rodrigo Duterte e il primo ministro cambogiano, Hun Sen.

“La Belt and Road (Bri, Belt & Road Initiative. Ndr) è aperta, inclusiva e trasparente. Non gioca piccoli giochi geopolitici. Non è impegnata nell’esclusione di piccoli circoli esclusivi”, scrive Yang, confermando la nota linea cinese: la Bri promuove lo sviluppo congiunto, dice Pechino; è solo una questione di politica economico-commerciale, dice Roma; c’è il rischio di derive, trappole del debito appunto, o eccessive aperture, che possono andare a finire sul piano politico e di sicurezza, dice Washington.

“Per i partner cooperativi che hanno difficoltà nel debito, il principio della Cina è quello di risolvere adeguatamente questo attraverso consultazioni amichevoli, e non ha mai spinto o forzato il debito” su nessuno, ha aggiunto Yang. Chiedere allo Sri Lanka, però, che incapace di ripagare il debito con la Cina, nel 2017 s’è visto costretto a cedere il nuovo porto di Hambantota, con un contratto di concessione valido per 99 anni, dopo aver ricevuto fondi dalla Cina per costruirlo (da Hambantota passa la Bri).

L’aeroporto Kenneth Kaunda di Lusaka, in Zambia, è un altro di quelle infrastrutture che da mesi è oggetto di certe speculazioni simili: per mancati pagamenti del debito che la Cina avanza verso il paese africano, alcune società pubbliche dello Zambia rischiano di diventare proprietà di Pechino.

Lo scorso anno, il primo paese a cercare di strutturare una difesa sulle influenze cinesi era stata l’Australia (il peso di certe situazioni è raccontato anche in serie-Tv come “Secret City”): una legge per la sicurezza nazionale è stata votata nel giugno scorso, dopo che il primo ministro, Malcolm Turnbull aveva parlato di “inquietanti racconti sull’influenza cinese”. In Pakistan, continuando, il corridoio infrastrutturale Cina-Pakistan che finisce nel porto di Gwadar, sull’Oceano Indiano, è un’opere da 62 miliardi di dollari finanziata dai cinesi: il modello è già noto e pronto, se il governo del primo ministro Khan non riuscirà a rispettare il debito contratto, Pechino diventerà proprietaria del corridoio infrastrutturale strategico, che è una deviazione della Bri.

Poi c’è la ferrovia Gibuti-Addis Abeba, progetto da 2,5 miliardi di dollari messi anche in questo caso a disposizione dalla Cina, che pochi anni fa a Gibuti ha piazzato la sua prima base militare extraterritoriale, e che ha ingolosito il governo etiope offrendo con l’infrastruttura verso il Corno d’Africa il primo, storico collegamento al mare. Se l’Etiopia non avrà fondi per rientrare nel prestito, l’opera passerà in mani cinesi. Inoltre, il Center for Strategic and International Studies di Washington valuta che il 90 per cento dei progetti di trasporto finanziati da Pechino sono stati appaltati a ditte cinesi, le briciole restanti ai locali: non proprio il modello di sviluppo congiunto propagandato a Yang.

Il primo ministro malese, Mahathir Mohamad, seguendo uno dei claim elettorali che lo hanno portato al successo, per evitare eccessive esposizioni a debiti con Pechino, ha disdetto più di 20 miliardi di dollari di progetti vinti da società cinesi tramite le precedenti amministrazione. Qualche tempo fa, durante una visita a Nuova Delhi, Ibrahim Ameer, nuovo ministro delle Finanze delle Maldive, ha dichiarato che la Cina “ha gonfiato i prezzi dei progetti per le infrastrutture” negoziate dall’ex presidente Abdulla Yameen – accordi che le Maldive intendono rinegoziare, tornando a lavorare prevalentemente con l’India.

 

×

Iscriviti alla newsletter