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Il patto con la Cina, le fibrillazioni nella Lega e le reazioni di Washington

È atteso domani a Roma il presidente cinese Xi Jinping, tutto pronto per la firma del memorandum tra Italia e Cina. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha ribadito ieri che con Pechino si tratterà soltanto di un accordo commerciale, ma che l’ancoraggio dell’Italia ai patti euro-atlantici resta solido. Non la pensano così gli Stati Uniti e, a dirla tutta, neppure molti dei big della Lega che temono ritorsioni da Washington. Salvini ne è consapevole: nei giorni scorsi aveva provato a frenare sull’accordo tra Italia e Cina esprimendo tutte le sue remore sulla possibilità che i dati sensibili relativi alla nostra sicurezza nazionale possano finire nelle mani di Pechino attraverso la concessione delle reti per il 5G.

Una parte dei leghisti sono pur consci che quello che si sta per porre in essere con la Cina è un patto che va al di là del puro business, ma che va a impattare in maniera importante sulle relazioni con gli Stati Uniti. Non si tratta di soli affari, ma di garantire al Dragone, grande competitor globale degli Usa, uno sbocco nel Mediterraneo. Ecco perché da Oltreoceano gli emissari statunitensi continuano a ribadire che se l’accordo si farà non saranno assicurati scambi di informazioni tra le intelligence. E per un Paese G7, membro storico della Nato, sono parole che dovrebbero fare un certo effetto.

La Lega ha così lavorato ai fianchi gli alleati del Movimento 5 Stelle almeno per porre dei paletti agli accordi con Pechino. Sulla questione dei porti intenso è stato il lavoro tra le due autorità portuali, il ministero dei Trasporti e quello degli Esteri con il leghista Guglielmo Picchi che ha aiutato ad eliminare gli aspetti più critici. Nel frattempo il prossimo Consiglio dei ministri approverà a breve le modifiche per le clausole del golden power e cercare di definire meglio anche la questione delle telecomunicazioni. Nella bozza del memorandum che sarà firmato domani con il presidente Xi Jinping resta la parola “telecomunicazioni” all’interno del testo e quindi – a dispetto delle rassicurazioni dei vari ministri e sottosegretari dell’esecutivo – la possibilità di far sviluppare ad aziende cinesi la tecnologia 5G resta del tutto in campo. Del resto a Roma – come ha ricordato anche l’ultimo rapporto alle Camere presentato dal Comparto intelligence – sanno benissimo che se il 5G sarà sviluppato da una società cinese, sia che possa essere la privata Huawei che la statale Zte, le aziende del Dragone hanno l’obbligo di passare ogni dato richiesto al governo di Pechino. Insomma la possibilità che dati italiani finiscano in mani cinesi per poi essere gestiti chissà come resta una certezza più che un’eventualità.

Ma questi sono tecnicismi. Il problema – e una parte dei leghisti ne sono consapevoli – non è soltanto sui porti o sulle telecomunicazioni. Non si tratta di soli affari, come hanno ribadito Conte e Di Maio in questi giorni. Quel memorandum è invece un’apertura storica alla Cina nel momento in cui più forte è lo scontro tra Washington e Pechino. Una scelta di campo.

A fine mese il vicepremier Di Maio, colui che più di tutti ha voluto l’accordo con Pechino, si recherà negli States in visita ufficiale. Quali saranno le conseguenze della firma del trattato italo-cinese non servirà molto tempo per comprenderlo. Si tratta di business, è vero, ma per l’Italia il conto potrebbe anche essere in perdita.

 


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