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Colombia e Cuba. In guerra per il Venezuela

Di Carmine Pinto
Venezuela

In Venezuela l’intervento c’è stato venti anni fa. Funzionari, militari, uomini di intelligence, dirigenti politici cubani diventarono una componente centrale del regime chavista. Secondo Luis Almagro, segretario dell’OEA, riferimento della democrazia liberale latina, nel 2018 c’erano almeno 22000 cubani, con ruoli diversi, in Venezuela. Del resto, è condivisa l’opinione che fu Fidel Casto a scegliere Nicolas Maduro come presidente. Era un personaggio di terza fila, rispetto ai Diosdato Cabello e ai Freddy Bernal, ma perfetto per garantire tanto i cubani che la cupola chavista, che lo considera a metà tra un operativo e un visionario un po’ folle. Così Chavez, malato, era stato portato a Cuba. Quando si giunse alla resa dei conti, fu Castro a far pesare la bilancia per Maduro.

I Castro avevano sempre avuto ambizioni geo-politiche come quasi nessun altro regime comunista di medie dimensioni. Durante la Guerra Fredda, sono stati l’unico paese dell’America Latina a mandare soldi e militari in Africa. Nel continente erano riferimento di guerriglie e gruppi armati in un qualche modo a loro legati o ispirati. L’isola era una base per la politica sovietica, ma sempre con la mano o il protagonismo del dittatore. Poi, dopo il 1989, quando il comunismo era in rotta nel mondo, e in Cina diventava capitalista, Castro, insieme a dirigenti della sinistra latina, si inventò il Foro de Sao Paulo. Era una rete che raccolse l’oceano radicale di sinistra, e comprese pure alcuni gruppi socialisti (come i brasiliani, ma buona parte dei socialdemocratici non aderiì) fino ai gruppi narco-terroristi, come l’ELN e le FARC.

Si trattava di una strategia di profondità, facilitata dal progressivo disimpegno degli Usa in America. Fu proprio il Venezuela il primo paese dove il Foro prese il potere, con il colonnello ex golpista Hugo Chavez. Nel decennio successivo vinsero in mezzo continente, compresi Brasile e Argentina, anche se con attori e profili politici molto diversi. Solo a Caracas l’interventismo di Cuba fu così forte, tanto da far definire il movimento politico castro-chavismo. Castro mandò funzionari dei servizi di intelligence, militari, medici, funzionari, Chavez gli mise a disposizione quote del petrolio venezuelano. Nel 2007 la svolta, la trasformazione della antica democrazia venezuelana in una semi-dittatura marxisteggiante, con la politicizzazione dell’esercito e della polizia, la sistematica repressione dei media liberi, l’occupazione progressiva dell’economia.

Non a caso, iniziò la prima emigrazione politico-economica di massa da un paese latino, che aveva un precedente proprio a Cuba e, di converso, entrambi poterono contare sulla solita folla plaudente di pezzi di intellighenzia e militanza politica della sinistra europea e nord-americana. Non mancarono contatti e relazioni, anche economiche con questi ambienti, a testimonianza di una consolidata strategia globale. Lo schema andò in crisi quando la morte di Chavez fu accompagnata dal rovinoso crollo dei governi di sinistra, spesso accompagnati da pesanti accuse di corruzione, malversazioni, in qualche caso con l’ombra del narco-traffico. Castro cercò una strada diversa per sopravvivere, offrì un palcoscenico al presidente statunitense Obama, e ottenne una tregua con gli Usa. Poi fece di Cuba la sede delle trattative tra le narco-guerriglie marxiste colombiane e il governo di Bogotà, ora in mano al liberale Santos. Le FARC, una volta filo-sovietiche, avevano da sempre una relazione privilegiata con l’isola, di cui Castro si fece garante.

La Colombia era l’altro protagonista della crisi regionale. La sua storia era opposta a quella cubana. Si trattava di un paese con contraddizioni incredibili ed affascinanti. Aveva conosciuto un secolo di guerre civili tra liberali e conservatori, continuate anche quando questi partiti erano scomparsi nel resto del mondo, ma sempre conservando un assetto istituzionale democratico, evitando dittature e golpe invece comuni nel continente. Negli anni Novanta precipitò nella sua peggiore crisi, al cui centro era la droga. Il paese fu stretto tra grandi cartelli criminali a vocazione globale, le antiche guerriglie marxiste, le FARC e l’ELN (questo direttamente filo cubano) e gruppi paramilitari, tutti però egualmente protagonisti del narco-traffico internazionale.

La drammatica situazione colombiana escluse al paese qualsiasi politica a dimensione regionale, lasciando campo libero a Chavez e alla inedita espansione cubana. Lo scenario cambiò a partire dal 2002. La combinazione tra la leadership del neo presidente Alvaro Uribe e una mobilitazione di una società notevolmente strutturata, il sostegno USA con il Plan Colombia e l’inizio della guerra al terrorismo globale determinarono una sorprendente e vincente rimonta dello stato colombiano. Nel 2010 i principali gruppi narco-guerriglieri erano stati ampiamente ridimensionati, con buona parte dei capi eliminati, mentre le forze paramilitari di destra erano disarmate e i capi estraditati negli USA. Il paese aveva conosciuto una impressionante crescita economica, a fronte del disastro in cui era precipitato il Venezuela, prima molto più ricco.

Il conflitto politico con il Venezuela era parte di questa politica. Chavez offrì protezione nella frontiera venezuelana ai narco-guerriglieri, oltre che esplicito sostegno politico-propagandistico. Il presidente Uribe mostrò le foto aree dei loro accampamenti in Venezuela, mentre crescevano le accuse verso gli apparati militari chiavisti di gestire reti di narco-traffico. Quando fu eletto un nuovo presidente, Santos, cambiò l’agenda strategica. In sostanza, voleva incassare un trattato di pace con le FARC (riconoscendogli una sostanziale immunità nonostante i loro terribili crimini) e tranquillizzare il paese dopo una lotta infinita a cartelli e narco-guerriglie.

Così finì per abbandonare il suo sponsor politico (Uribe) accettando una tregua con Chavez e riconoscendo ai cubani un decisivo ruolo di mediazione. La pace con le FARC fu firmata, e bocciata. Nel referendum la maggioranza del paese (con grande sorpresa del governo e delle élite accademiche) non volle riconoscere l’impunità ai narco-guerriglieri. L’accordo si fece comunque, alcuni entrarono addirittura in parlamento senza elezione, ma il paese era contro. E pesava il fantasma del Venezuela. Centinaia e centinaia di migliaia di venezuelani scappavano in Colombia dalla fame e dalla dittatura. La presenza di un forte insediamento filo chavista o comunque di sinistra radicale a Bogotà, entusiasmò gli accademici e spaventò la maggioranza del paese. Quando uno di loro, Gustavo Petro, si candidò a presidente, la Colombia ribaltò il risultato, ed elesse il giovane e dinamico candidato uribista Ivan Duque, nemico dei chavisti e dei narco-guerriglieri.

L’elezione di Duque è stato il passaggio chiave. Nel 2017 Maduro aveva potuto reprimere le manifestazioni di massa di protesta, facendo centinaia di morti, migliaia di arresti politici e determinando la fuga di milioni di venezuelani. Castro e poi il suo erede Rodriguez Parrilla, erano al suo fianco, avendo costruito la propria strategia di contenimento sulla resistenza del Venezuela. Anche il presidente Santos dovette fare muso duro con Maduro, ma non era in grado di fare altro. Ora Duque ha cambiato lo schema politico. Insieme al gruppo di Lima, i paesi democratici che vogliono mandar via la dittatura, è diventato l’alfiere della liberazione del Venezuela dal chavismo, un fronte che unifica tutte le democrazie americane (solo il presidente messicano è defilato).

Duque ha sostenuto il presidente Guiadò ed è riferimento della opposizione venezuelana, un caso unico di incredibile resistenza ventennale ad una dittatura. L’elezione di Bolsonaro in Brasile ha completato l’isolamento di Maduro. Senza contare che gli Usa da sempre considerano la Colombia loro migliore alleato, gli sono legati a doppio filo e hanno deciso di affrontare la crisi venezuelana. La sfida di Duque va oltre la solidarietà democratica. Ex uomini delle FARC addestrano i Colectivos, i gruppi politico-criminali del regime di Caracas, l’ELN a gennaio ha piazzato una autobomba nel centro di Bogotà, ha le sue basi in Venezuela e i capi a Cuba. Sono presenti in mezzo Venezuela. Il principale gruppo di opposizione è da sempre vicino al chavismo.

Una rivincita di Maduro, metterebbe in discussione la sicurezza della Colombia, che diventerebbe il prossimo campo di battaglia. Di converso, per i cubani è lo stesso. La caduta della dittatura gli toglierebbe l’unica linea di contenimento strategico, e ne farebbe l’obiettivo naturale dei democratici latini, mettendo a rischio il sistema di relazione e alleati locali. La sfida del Venezuela è anche un confronto tra Cuba e Colombia. Sono due potenze a dimensione regionale, capaci di condizionare la politica della regione caraibica e al centro di reti ed interessi mondiali. Cuba rappresenta la frontiera delle autocrazie, la Colombia quella delle democrazie. La crisi venezuelana determinerà il futuro delle due potenze caraibiche.

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