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Insieme è meglio: l’importanza della difesa europea. Parla Alessandro Marrone (Iai)

Di Giulia Altimari

Nell’ultimo biennio la cooperazione ed integrazione nel campo della difesa europea ha visto importanti sviluppi. Con il lancio della Permanent Structured Cooperation (Pesco) ed i progetti approvati nel 2018, l’obiettivo di migliorare le capacità militari europee sembra avere assunto una sempre maggiore centralità. In questa intervista, il responsabile del programma “Difesa” dello Iai, Alessandro Marrone, parla dello studio realizzato insieme a Paola Sartori sui recenti sviluppi verso una “difesa europea”, mettendo in luce le opportunità e le sfide che questa rappresenta per l’Italia.

L’Italia, spiega Marrone, ha preso parte a numerosi progetti Pesco, in alcuni casi con il ruolo di leader. Inoltre, grazie al Fondo Europeo per la Difesa (European Defence Fund – Edf), l’industria italiana ha potuto cogliere una grande opportunità nel settore aerospazio, sicurezza e difesa, misurandosi con i primi bandi per l’allocazione delle risorse stanziate dall’Ue.

In seguito alla domanda da parte dei cittadini europei di un’Europa che protegga meglio la loro sicurezza si è deciso di adottare la Pesco (Permanent Structured Cooperation). Come funziona?

La Pesco è un meccanismo centrato sulla volontà dei Paesi membri di cooperare. Spetta ai governi nazionali presentare progetti e sviluppare cooperazioni, salvaguardando così la sovranità nazionale. Al tempo stesso l’Alto Rappresentante per la politica estera di difesa e sicurezza, la European Defence Agency (Eda) e lo EU Military Committee, quest’ultimo presieduto dal generale italiano Claudio Graziano, fanno da supporto e quindi legano questa cooperazione intergovernativa al quadro Ue. Ciò è importante per mettere a fattor comune il livello bilaterale con quello regionale ed Ue. Alla Pesco partecipano 25 Stati Membri sui 27 Stati dell’Ue, il che evidenzia un ampio consenso politico verso l’iniziativa. Ma poiché è difficile prendere decisioni a 25, la Pesco permette a gruppi più piccoli di Stati Membri (da 2 in su) di andare avanti su determinate aree di cooperazione senza aspettare gli altri, e quindi di avviare progetti su base più ristretta, ovviamente condividendone poi i risultati con il gruppo della Pesco.

A cosa serve l’inquadramento istituzionale concepito per questa iniziativa?

Serve per mantenere una stabilità nel tempo perché si è visto che nel passato le interazioni bilaterali, come quella tra Francia e Inghilterra o il triangolo di Weimar tra Francia, Germania e Polonia o altre, non hanno prodotto grandi risultati. Il fatto che ci sia un mandato per le istituzioni Ue fa sì che da Bruxelles ci sia una spinta a cooperare, come è stato in precedenza in altri ambiti, e poiché l’Ue in questa circostanza ha lanciato l’Edf si è disposto che progetti in ambito Pesco possano ottenere, se rispettano i requisiti fissati, un cofinanziamento del 30% da parte del Fondo stesso. Quindi l’inquadramento istituzionale serve anche a dare un incentivo economico a cooperare, e un cofinanziamento del 30% è molto importante, specie per Paesi come l’Italia che non hanno un bilancio della difesa in aumento come quasi tutti gli altri membri dell’Unione Europea.

In cosa consiste il progetto Eurodrone e che ruolo può avere per l’Ue?

Il campo dei velivoli a pilotaggio remoto, chiamati comunemente droni, è in fortissimo sviluppo da ormai vent’anni e vengono utilizzati per diversi scopi. Principalmente per raccogliere informazioni, monitorare aree e confini con una persistenza in teatro operativo molto elevata, permettendo di eliminare il rischio per i propri militari poiché la stazione di controllo è al sicuro e non vi è il pilota a bordo.

Quindi, ad esempio per una missione di stabilizzazione in Libia piuttosto che in Iraq, ovvero per monitorare un’area in cui vi è il rischio di essere abbattuti, piuttosto che per il monitoraggio del Mediterraneo in chiave di gestione di flusso migratorio su ampie aree lontane dalla terraferma, o anche in caso di catastrofi naturali o attentati terroristici o per l’osservazione di eventi sul territorio europeo, questi sistemi sono estremamente utili.

L’Europa, essendo partita in ritardo su questo fronte, è al momento dipendente dagli Stati Uniti, unici fornitori insieme ad Israele dei droni attualmente in uso alle forze armate europee. Quindi il progetto Eurodrone serve ai Paesi Ue per sviluppare autonomamente piattaforme di sorveglianza, di intelligence e a scopi di difesa e sicurezza, e di farli produrre da industrie europee che quindi svilupperebbero le tecnologie necessarie, mantenendo i brevetti del know-how in Europa. Poi certo si può fare una cooperazione con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e tanti altri Paesi nel campo della difesa, però appunto per cooperare bisogna sviluppare e avere delle capacità in proprio altrimenti, altrimenti si è solo clienti.

Su quali Paesi è concentrata la Pesco ed in quali tra i progetti messi in campo partecipa l’Italia?

Vi sono 34 progetti in ambito Pesco: 7 progetti in campo cibernetico, 6 nei sistemi terrestri, 5 per quanto riguardo l’addestramento, 4 in ambito marittimo, 3 nei sistemi aerei e 2 nello spazio – nonché 7 per capacità “abilitanti” a vari livelli.

Si può dire che i progetti Pesco sono distribuiti in modo bilanciato tra i vari domini. Certamente vi è una prevalenza nel campo cibernetico, che forse è quello più innovativo ed attuale. Ma anche gli altri sono ben rappresentati.

Vi è questo bilanciamento perché i diversi Stati membri hanno diverse esigenze. Nel campo spaziale l’esigenza è principalmente italiana, francese, in parte tedesca e spagnola perché sono i Paesi che hanno satelliti e la capacità per metterli in orbita, per una funzione di sorveglianza e di intelligence nonché di comunicazioni satellitari. Altri Paesi invece non sono interessati. Lo stesso si può dire nel campo marittimo che è più di interesse degli Stati costieri. I progetti in cui è presente l’Italia sono 21 su 34, quindi un numero molto elevato, e spaziano in diversi ambiti. L’Eurodrone è sicuramente uno dei più importanti. Così come i due nel campo spaziale con la Francia. La famiglia dei veicoli blindati per l’esercito in collaborazione con la Grecia è un altro progetto promettente. E poi vi sono altri progetti che sono meno semplici da cogliere, perché riguardano strutture di addestramento, ma sono importanti per avere una formazione più adeguata a livello europeo delle proprie forze armate.

Nell’ambito del Fondo Europeo di Difesa (Edf) e del Programma Europeo di sviluppo del settore industriale della Difesa (Edidp) che prospettive ci sono per l’industria italiana?

L’Edf è un programma molto importante per due motivi: da un lato perché vi sono finanziamenti molto sostanziosi: si parla infatti di 13 miliardi di euro nel prossimo settennato (2021-2027), di cui 4,1 miliardi alla ricerca scientifica e tecnologica e 8,9 miliardi allo sviluppo di prototipi di capacità militari più avanzate. Quindi dopo aver fatto la ricerca di base si passa al prototipo e poi alla produzione e c’è dunque un volume importante. Ma non è solo questo. E’ anche importante il fatto che questi progetti mobilitano una cooperazione tra Stati membri. Quindi c’è un’opportunità per l’Italia di sviluppare insieme ad altri Paesi europei capacità che servono alle nostre forze armate e alle forze armate dei partner, di fare sinergia quanto a tecnologia e capacità industriale, per ottenere un risultato migliore. Questa è la frontiera tecnologica della difesa europea del prossimo decennio e finora l’industria italiana si è posizionata bene. In seguito all’impegno della Commissione, già per il triennio 2017-2019, con lo stanziamento di 90 milioni di euro in attività di ricerca in ambito militare all’interno del cosiddetto Padr (Preparatory Action for Defence Research), una sorta di programma pilota per le future attività all’interno del Fondo Europeo di Difesa che partirà nel 2021, l’Italia è riuscita a ritagliarsi un ruolo di primo piano. Leonardo, ad esempio, ha vinto un progetto importante: l’Ocean 2020. Progetto che mira all’integrazione dei droni e dei velivoli con pilota a bordo in operazioni navali, con un bilancio di 35 milioni di euro e con il coinvolgimento di 42 partner provenienti da 15 Stati Ue. Quindi nel rodaggio di questo Fondo l’industria italiana nel settore aerospazio e difesa ha vinto il bando più importante, ma è solo l’inizio: ogni anno vi saranno bandi, ogni anno il volume dei fondi europei andrà a crescere e quindi bisogna rimanere competitivi, attenti e in buoni rapporti con i partner militari, industriali e politici degli altri Paesi europei con i quali si andrà a formare consorzi per ottenere questi fondi a bando.

Cosa prevedono la Card (Coordinated Annual Review of Defence) e il Cdp (Capability Development Plan)? Obiettivi e realtà attuale. Si riuscirà a trovare un compromesso europeo mettendo da parte interessi nazionali e pretese egemoniche da parte dei singoli Stati?

La Card è la revisione coordinata annuale delle capacità militari dei Paesi Ue. E’ un meccanismo per cui le forze armate dei 27 Paesi Ue, sostenute e aiutate dall’Eda, mettono sul tavolo i propri piani di investimenti militari, e i numeri degli equipaggiamenti che hanno al momento. Quindi la Card serve ad avere una fotografia dello stato dell’arte delle forze armate europee, delle capacità militari all’interno dell’Ue. Serve a sapere cosa si ha a disposizione e quindi cosa si può fare, quali operazioni sono fattibili e quali no.

Il Cdp è una visione di medio-lungo periodo, sui cinque-dieci anni, che, partendo da un’analisi della minaccia e da un’analisi delle missioni che spettano alle forze armate dei paesi Ue – da operazioni di stabilizzazione in situazioni di conflitto o post-conflitto alla protezione del territorio o della popolazione europea da attacchi ibridi – fornisce le indicazioni su quali capacità militari occorre sviluppare. Le missioni poi possono svolgersi nel quadro Ue, nel quadro Nato o nel quadro nazionale o di coalizioni ad hoc. Tuttavia, in ambito di politica comune di sicurezza e difesa, il Cdp dice che per svolgere queste missioni noi avremo bisogno, tra cinque-dieci anni, di determinate capacità. Allora, se si guarda di cosa si avrà bisogno in cinque-dieci anni e cosa si ha a disposizione adesso, si può capire quali sono i gap da colmare. Si può avere, cioè, quella visione d’insieme sulle forze armate europee che al momento non c’è, e quindi ritenere che su certi fronti, su certe missioni siamo coperti, ossia in grado di agire, su altri no, quindi siamo vulnerabili, a rischio. Bisogna dunque investire dove abbiamo un gap. La Card e il Cdp sono due strumenti per avere a livello Ue la capacità da parte degli stati membri di effettuare non investimenti a pioggia, ma investimenti mirati che servono a colmare il gap di capacità.

Il punto che abbiamo cercato di evidenziare anche nello studio è che non si tratta di sostituire gli interessi nazionali con gli interessi europei, perché tutti gli Stati membri dell’Ue fanno i propri interessi nazionali. Ma piuttosto si riconosce che c’è un grandissimo grado di sovrapposizione, condivisione e complementarità di questi interessi. L’interesse ad un’Europa sicura, ad un’Europa stabile, a un vicinato in cui non vi siano crisi, a una gestione dei confini, ad influenzare per il meglio i Paesi vicini, a poter gestire una Russia che è diventata più aggressiva, sono degli interessi comuni, così come quelli dello sviluppo industriale, tecnologico e occupazionale. Anche se possono esserci visioni diverse su come inseguire questi interessi comuni, o altri interessi divergenti, il punto è cercare di metterli a sistema, trovare un terreno comune o quanto meno limitare i danni delle divergenze. E questo può essere fatto solo in un quadro Ue, perché lì ci sono delle istituzioni a garanzia di tutti: il Parlamento Europeo, il Consiglio, la Commissione. E c’è un bilancio comune che aiuta a perseguire una politica comune.

Ora, il come evitare pretese egemoniche dipende dalle dinamiche politiche dei singoli Paesi membri. La Francia di Macron magari è un po’ diversa da quella di Hollande o di Sarkozy, così come l’Italia di oggi può essere un po’ diversa dall’Italia di qualche anno fa in quanto a guida politica. Quindi dipende dai leader del momento trovare la quadra, non a discapito degli interessi nazionali ma capendo che gli interessi nazionali vengono meglio perseguiti in un quadro europeo, e non al di fuori. In un quadro europeo dove il compromesso è spesso meglio di un’azione solitaria. Data la piccola capacità di ogni Stato membro rispetto alle sfide della Russia, dell’instabilità in Africa, ecc., azioni unilaterali comunque non porterebbe a risultati. Quindi, piuttosto che non ottenere quello a cui si punta da soli, meglio capire che si può ottenere una buona parte di quello a cui si punta cooperando con altri Paesi europei.

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Giulia Altimari, laureata in Relazioni internazionali, collabora con Europa Atlantica



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