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Europa Atlantica, sette passi per una nuova narrazione occidentale

Di Alberto Castelvecchi
carli, nucleare, politi, guerra fredda, europa, uropee, De Gasperi europa

Tutti ricordiamo, ancora oggi, il motto laconico con cui nel secolo scorso si rispondeva alla domanda: «A che serve il Patto Atlantico?» – «È semplice: Americani dentro, Russi fuori, Tedeschi sotto». Per brutale che fosse, la battuta illustrava bene la disposizione degli equilibri geostrategici dopo il Secondo Conflitto Mondiale, e disegnava anche la posizione – la «postura» – con cui Usa e Urss si fronteggiavano sullo scacchiere europeo: strategie della Tensione e della Distensione, Informazione e Disinformazione, organizzazioni atlantiche di tipo Stay-Behind, opposti estremismi, opposti imperialismi, eccetera.

Quella frase conteneva anche tutto l’immaginario con cui siamo cresciuti: da James Bond alla Pop Art, dalle Università Ivy League ai Figli dei Fiori, dal Piano Marshall al boom economico.

E se oggi volessimo rispondere con altrettanta brevità alla stessa domanda? Se ci chiedessero a cosa serve un sistema di relazioni euro-atlantiche, difficilmente sapremmo produrre una linea altrettanto semplice e asciutta. Perché? Perché in un mondo multipolare e complesso come quello in cui viviamo, quelli che un tempo erano i nostri avversari di volta in volta si presentano come interlocutori, o competitor, o partner. Anzi, succede che fasi politiche contingenti provochino fluttuazioni significative, spostamenti di asse, raffreddamenti e rappacificazioni nello spazio di una sola stagione.

Inoltre, anche se sono in molti oggi a «soffiare sul fuoco», è perfettamente evidente che, se l’Europa vuole giocare un ruolo importante nel sistema di relazioni euroatlantiche, è dirigendosi verso un ruolo di stabilizzazione e di composizione dei conflitti, interni ed esterni, piuttosto che di un loro inasprimento. Non ha più senso oggi parlare di un «dentro, sopra e sotto» come assi direzionali del sistema atlantico. Ci troviamo tutti in condizione simile, di fronte a minacce come il terrorismo, la speculazione finanziaria su grande scala, la destabilizzazione portata da cartelli criminali transnazionali, nel mondo reale e anche in quello virtuale. Tentando di formulare il tema con un’immagine semplice: per fronteggiare queste minacce dovremo sederci tutti a uno stesso tavolo. Alcune potenze – per prime quelle storicamente connesse e coordinate nella NATO – saranno sedute fianco a fianco. Altre, con cui tutt’ora sussistono gravi incomprensioni e tensioni di carattere geopolitico e strategico, dovranno vedere – o essere indotte a vedere – una convenienza forte a sedersi di fronte a noi, e riannodare un dialogo su questi problemi cruciali.

Come Occidente coltiviamo il dubbio metodologico e il pensiero critico, e dunque ci manca il più delle volte la «risposta pronta», quella che Eugenio Montale chiamava «la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe». Sappiamo (forse) «quel che non siamo, quel che non vogliamo», ma il potere affermativo delle nostre convinzioni e dei nostri valori da qualche tempo sembra venuto meno. Possiamo ritrovarlo? Forse sì, ma per poterlo fare dobbiamo in primo luogo ritrovarci su dei valori fondamentali, e affermarli con una vigorosa Narrazione.

OCCIDENTE SOTTO ATTACCO

Oggi la cultura occidentale ed euroatlantica è sotto attacco. Si delegittimano – con campagne mirate e organizzate – i fondamenti stessi dell’Ordo Occidentalis: dalla democrazia rappresentativa alla parità razziale, dalla libertà di circolazione delle persone e delle merci alla libertà di stampa. Come ha scritto Paolo Messa in un suo recente volume, non siamo più di fronte a una forma di «soft» power. Il discorso antioccidentale si è fatto «sharp», tagliente, invasivo e aggressivo

Le minacce possono venire da attori statuali per ragioni di competizione strategica e/o economica. Ma oggi anche gruppi di pressione non-statuali (o transnazionali) hanno  interesse a destabilizzare il nostro modello di convivenza. I nemici dell’Occidente sono in parte esterni, e in altra parte interni.

Per capire da quali e quante parti vengono le minacce al sistema interdipendente degli Stati dell’Alleanza Atlantica saremo comunque costretti a rimodulare continuamente le nostre dottrine strategiche, i nostri sistemi di intelligence e la strumentazione controffensiva con cui lo fronteggiamo.

Ma la cosa che ci dovrebbe preoccupare è questa: l’Occidente atlantico è decisamente a corto di una qualsiasi forma di formulazione positiva, di sé e del proprio senso. E questa è, senza dubbio, la battaglia più importante da vincere: una battaglia fatta di princìpi attrattivi, di idee e di moral suasion.

CHE FARE

Innanzitutto, dobbiamo mobilitare intelligenze e risorse creative per la formulazione e la profilazione di nuovi modelli narrativi, di nuove campagne di informazione. E su questo dobbiamo intensamente investire nella formazione dei giovani. È il momento del training. Svolgere un lavoro di sensibilizzazione e di formazione dei giovani che studiano nelle nostre Università e nei Dottorati. Dare vita ad associazioni culturali e riviste (come questa). Finanziare viaggi di studio, scambi, relazioni che incrementino la fiducia in un quadro valoriale condiviso.

Qui di seguito, in forma di prime note, proviamo a elencare i primi sette passi – come si dice nei contratti, a titolo esemplificativo e non esaustivo ­– di un Manuale di Narrativa Eurotlantica:

  • Cosa vuol dire «Europa Atlantica»? Per noi vuol dire che un’Europa forte, integrata e sovrana è il miglior partner strategico degli Usa, ma anche il migliore e più affidabile interlocutore attivo per le altre grandi e medie potenze globali. E che gli Usa sono un partner conveniente, per i Governi e le popolazioni d’Europa, solo se sapremo rapportarci con loro nella forma di un sistema sovranazionale europeo il più possibile compiuto e coerente. Al contrario, una frammentazione di micro-poteri, micro-sovranità commerciali, rivendicazioni e divisioni polemiche non è negli interessi di nessuno. È fondamentale promuovere in Europa una cultura del rispetto e dell’ascolto: spesso chi ci grida contro ha paura, o è deluso, o non siamo stati capaci di convincerlo a sedersi a discutere con noi. Quando diciamo «Europa Atlantica»stiamo lanciando un appello forte proprio a noi, a tutti quegli europei di buona volontà che si ritengono eredi di una tradizione di tolleranza e apertura mentale plurisecolare. Capire «cosa ci unisce» è la vera scommessa, per rilanciarci come interlocutori attivi al di là dell’Atlantico.
  • Dobbiamo ribadire con forza un concetto: l’Occidente ha fatto tanti errori e ha molti difetti, ma deve smettere di sentirsi in errore o in difetto per i propri valori fondanti. L’Occidente democratico è e deve essere presentato senza alcun dubbio come attrattivo, probabilmente più di qualunque altro contesto mondiale. Attrattivo vuol dire anche «inclusivo» ­– e come tale dobbiamo dipingerlo in ogni sede internazionale – perché promuove stili di vita liberi e rispettosi dell’individuo. Attrattivo perché propone il ricambio a tempo delle cariche politiche di vertice, che assicura la dinamica generale del sistema. E anche quando si danno lunghe permanenze al potere (Merkel docet), la leadership dei Primi Ministri e dei Cancellieri è controbilanciata da un insieme di poteri, interni e sovranazionali, tali da scoraggiare ogni involuzione autoritaria. Il rispetto di capisaldi fondamentali, come l’espressione di opinione e la libertà di stampa, agli occhi di qualcuno ci rende deboli e attaccabili. Ma in realtà è la nostra forza. Siamo litigiosi e spesso denigriamo gli avversari, ma in fin dei conti da noi tutti si riconoscono in libere elezioni e nel processo costituzionale. «Qui da noi facciamo così», diceva un famoso discorso di Pericle 2.500 anni fa, e non abbiamo ancora cambiato idea.

I detrattori del sistema occidentale sono molti, e di almeno tre categorie: vi sono innanzitutto quelli che non riconoscono il nostro modello di vita perché dagli albori della loro Storia non sono mai stati liberi.

Tra questi, purtroppo, dobbiamo anche annoverare i fautori di varie forme di fondamentalismo e di terrorismo. Contro costoro occorre fare argine, con le armi in pugno, senza però venire meno alla bellezza intrinseca dei nostri valori.

In secondo luogo vi sono interlocutori e partner economici dell’Occidente anche importanti, come la Russia e la Cina, che ci conoscono perfettamente e con cui dobbiamo mantenere un dialogo franco e autorevole, chiedendo e dando rispetto, anche in questo caso senza venire meno ai nostri principi. Se sapremo rapportarci in maniera «adulta» con i nostri partner, presentando le nostre posizioni e soprattutto ascoltando le idee altrui, otterremo molto di più che alimentando guerre di nervi e di posizione (o di commercio) sfibranti.

Ma in terzo luogo viene la grande massa dei delusi e degli incerti, milioni di cittadini delle democrazie occidentali che oggi manifestano un bisogno di maggiore protezione sul piano della sicurezza e dell’identità, e chiedono a gran voce che i rappresentanti – gli «eletti» – siano più vicini agli interessi dei rappresentati – gli «elettori». Questa è la sfida più difficile. E riconosciamolo, non può essere aggirata con argomentazioni semplicistiche o rassicurazioni «buoniste». Dobbiamo andare, per il nostro e l’altrui bene, oltre il «politically correct». Sta a noi argomentare, convincere, mediare e ribadire con forza che, invece di consegnare le bandiere dell’Occidente in nelle mani del dispotismo massimalista, vogliamo cooperare con tutti per un pianeta più stabile e sicuro. La rabbia che oggi – internamente – agita le democrazie occidentali può essere letta in due modi. La lettura che va per la maggiore tende a delegittimare e criticare il sovranismo e il massimalismo, la tentazione dell’uomo forte e il cortocircuito cognitivo delle fake news. Ma una seconda, più attenta lettura dovrebbe indurci a percepire, in quelle dichiarazioni rabbiose (e talvolta incoerenti), delle pulsioni e delle richieste di maggiore coesione e stabilità dei principi sociali. Una vocazione a radicarsi e a «stare insieme» che può essere un buon punto di partenza per una discussione franca e aperta. Insomma, se l’Occidente vuole ritrovare sé stesso, deve «guardarsi dentro» e riaffermare con forza i principi luminosi della propria civiltà: libertà, autodeterminazione, rispetto, regole, apertura internazionale. La paura e la rabbia sono le peggiori compagne di viaggio, e non ne abbiamo bisogno se vogliamo ritrovare la via maestra.

  • Dobbiamo promuovere una campagna permanente di diplomazia interna alle democrazie occidentali, e ingaggiare i decisori politici e le Istituzioni con cordialità, insistendo sulle linee-guida della coerenza e del mantenimento degli impegni internazionali dell’Italia, e sulla necessità di dialogo con l’establishment Usa. Questo presuppone agire con pacatezza ma con fermezza. E soprattutto, individuare gli interlocutori sensibili in tutte le forze politiche e dialogare con loro, in un’opera di costante propaganda attiva. Un’Europa che voglia dirsi «Atlantica» – cioè, fedele ai propri valori liberali e aperti – deve innanzitutto riconoscersi come «Europa». Fanno parte di questa Storia e di questo destino, volenti o nolenti, anche quei cittadini del Regno Unito che hanno deciso di lasciare l’Unione (Brexit), ma oggi sono seduti a un tavolo di lavoro con noi per capire come si può continuare lavorare insieme per la sicurezza e la crescita economica. E la Nato deve essere uno degli elementi stabilizzanti di un quadro di interessi e progetti comuni, non escluso quello per l’edificazione di un sistema integrato di Difesa.
  • Dobbiamo fare moral suasion interna all’Occidente stesso: è da noi e dal nostro sistema di valori che dobbiamo ripartire. Anche all’interno del blocco occidentale vanno incoraggiati l’integrazione e il dialogo, per scoraggiare le derive autoritarie e massimaliste: questo vuol dire individuare quei filoni delle classi dirigenti intellettuali e politiche che, in Usa, Uk (anche post-Brexit) ed Europa, sono ancora interessate alla continuità di una dimensione sovranazionale: culturale e perfino spirituale, prima ancora che economica e militare. Un’idea di Occidente che non può prescindere dalle radici plurali e plurisecolari (anche cristiane) della tolleranza, della libertà di espressione e della libertà di impresa economica. Con questi interlocutori – che sono presenti e numerosi, si badi, sulle due sponde dell’Atlantico – sarà possibile ricostruire un fronte di iniziative e di policies. Capire cosa è giusto rivendicare del nostro passato, ma anche cosa bisogna fare per fronteggiare la domanda diffusa di innovazione, rilancio, rimotivazione delle coscienze.
  • Dobbiamo ribadire che l’Europa – e, più estensivamente, l’Europa Atlantica – non è fatta solo di soldi, commerci e trattati. È fatta di stati d’animo, mentalità e acquisizioni filosofiche e politiche che producono un idem sentire. L’errore che abbiamo fatto, in termini di narrativa, è di focalizzarci troppo sugli aspetti di unità monetaria e stabilità dei cambi – che pure sono importantissimi – e sui trattati di integrazione dei mercati. Dimenticandoci di dire per anni quanto è «pazzescamente bello» passeggiare a Parigi sentendosi a casa, e continuare a sentirsi a casa per le vie di New York, e vedere le processioni della Settimana Santa di Siviglia, e vedere un tramonto dal Pincio a Roma, ancora con la sensazione di trovarsi a casa. Dimenticandoci di sottolineare che, pur con tutte le angosce della recessione economica che ci ha colpiti dopo il 2008, è bello vivere in un sistema dove la libertà di parola e di associazione dei lavoratori è sacra e tutelata. L’Occidente è questo. È anche una civiltà del cibo, e del saper vivere, e del saper ascoltare gli altri. È una civiltà magnifica, come purtroppo sanno bene anche i nostri nemici jihadisti.

Noi dobbiamo essere in grado di «dialogare con tutti», a partire però dall’apertura dei nostri costumi e dall’altezza dei nostri principi morali.

  • Dobbiamo tornare a comunicare forte e chiaro. Un tempo si diceva «Taci, il nemico ti ascolta». Oggi il luogo del confronto è l’arena pubblica, è la televisione, sono i social media. E quindi dovremmo raccomandare: «ascolta, poi parla e fatti ascoltare da tutti». Come comunicare, però? Cambiando di segno a quanto fatto fin ora, e facendo uso di una forte proattività, in particolare sui social media. Il fact-checking e la semplice tecnica rabbiosa della smentita «colpo su colpo» non possono bastare, e soprattutto non sono vincenti. Perché queste sono modalità di comunicazione «reattive», e quindi di seconda battuta: tu parli e io ti controbatto, allora tu attacchi e io contrattacco, in una spirale infinita di riprovazione e polemica. È evidente che continuare a usare un modello denigratorio e sprezzante di comunicazione sta danneggiando la convivenza democratica. Conterà, al contrario, la nostra capacità di produrre visioni, scenari, proposte positive. Di raccontare il bello, il buono e il meglio dei nostri modelli di vita. Un invito generale ad abbassare i toni sarebbe dunque auspicabile, per passare da una comunicazione «reattiva» a una comunicazione «proattiva». Facciamo un esempio: smettiamola di chiederci, come prima cosa quando ci alziamo al mattino, «di chi è la colpa?». E chiediamoci piuttosto: «qual è la soluzione?». Abolire il rancore dalle nostre formulazioni pubbliche dovrebbe essere un esercizio di igiene mentale, per tutti.
  • Ovviamente dobbiamo rivedere e rifondare il nostro vocabolario e il nostro comportamento sulle parole integrazione, multiculturalismo, accoglienza. Riconosciamo che anche il «politically correct a tutti i costi» ci ha fatto dei danni: si può sviluppare una società aperta, plurale, multietnica e multiculturale solo a partire dall’adeguamento per tutti – senza se e senza ma – a un sistema di regole democratiche. Lasciar immaginare ai nostri detrattori che una democrazia occidentale sia una tigre dalle unghie spuntate, dove tutto è lecito in nome di una malintesa idea estensiva della tolleranza e delle regole, è stato un errore gravissimo. Perché con quelle unghie dobbiamo oggi difendere le nostre libertà fondamentali, che sono costate rivoluzioni, guerre e sangue a milioni di individui. Su questo le classi dirigenti europee fino ad ora hanno fallito, finendo con l’incoraggiare derive di intolleranza e sovranismo regressivo: dire cosa non è negoziabile nel nostro sistema di valori sarà il migliore antidoto alle predicazioni antieuropee. Per parafrasare il titolo di un libro recentemente pubblicato da Marco Minniti – «Sicurezza è Libertà» – dobbiamo anche dire che «Libertà è Sicurezza»: il bisogno di protezione e il rafforzamento dei vincoli di convivenza civile sono oggi domande chiare e urgenti di buona parte delle popolazioni che vivono nelle metropoli occidentali. Ristabilire la nostra piena sovranità culturale, con una narrativa vigorosa, sarà dunque il migliore antidoto alle esasperazioni del sovranismo politico – e detto questo, anche con chi oggi propugna quel sovranismo bisogna dialogare e mediare.

La Nato, ma più generalmente parlando il cosiddetto «mondo libero» – è stata storicamente la sede di un grande psicodramma, in cui tensioni autoritarie si sono espresse e ricomposte in continuazione, per decenni.  Per quanto grave ci appaia oggi la situazione, dovremmo ricordarci che negli anni Settanta e Ottanta dello scorso secolo l’Europa è sopravvissuta a movimenti terroristici e a pulsioni distruttive  che – anche in quel caso – nascevano in buona parte da una domanda inascoltata di cambiamento e di innovazione. Volendo vedere il proverbiale «bicchiere mezzo pieno», dovremmo rallegrarci di come oggi la richiesta di cambiamento prenda la via del confronto elettorale e del dibattito politico – per quanto aspro – invece che quella dello scontro di piazza e della lotta armata, che ha segnato più di un ventennio della nostra Storia.

Sta a noi e al nostro modello – attrattivo e, osiamo dirlo, seduttivo – continuare questo lavoro di confronto e di crescita politica.

CONCLUSIONI: LA BALENA NON È UN PESCE

Come diceva lo storico inglese Edward H. Carr, quando eravamo bambini molti di noi rimasero stupiti dall’apprendere che, nonostante le apparenze, la balena non è un pesce. Ma adesso che siamo adulti, queste differenze di classificazione ci colpiscono di meno. Quindi, non dovremmo agitarci troppo quando ci dicono che la Storia non è una Scienza.

E ancor meno, aggiungiamo noi, dovremmo agitarci quando ci dicono che l’Europa attuale non è Atlantica. Certo, l’Europa si bagna in molti mari, vive di scambi con molte civiltà, cresce tra guerre intestine e conflitti aperti ma, alla fine del Secondo Conflitto Mondiale, trova la sua definizione e la sua stabilità in un rapporto strategico, economico e culturale privilegiato con gli Stati Uniti, e con il sistema di partnership politiche e militari della Nato.

I critici  e i nemici del sistema – non tutti ugualmente autorevoli, ma neanche tutti disprezzabili – hanno buone ragioni quando dicono che è pieno di difetti, ha dei partner (troppo) forti e altri partner (troppo) deboli, è costoso e deve continuamente ridefinirsi, un po’ come quei rapporti coniugali che, per durare, devono reinventare sé stessi e la propria direzione – e infatti abbiamo detto che è innanzitutto «all’interno» della famiglia atlantica che dovremo riaprire una discussione positiva sulla reciproca appartenenza.

Tuttavia, quando si cerca di stringere la conversazione con i detrattori del sistema, manca sempre un punto focale: non si capisce bene con che cosa dovremmo rimpiazzarlo. Alcuni parlano di un mondo multipolare e di una «equidistanza» che l’Europa (e l’Italia) dovrebbero avere, ad esempio, tra gli Usa e le altre potenze. Altri si spingono a tratteggiare una nuova entità geopolitica, l’Eurasia (meglio sarebbe dire Eurussia), che si opporrebbe «soggettivamente e oggettivamente» alle Americhe – in virtù di cosa? Di valori? Di buone pratiche di governo? No.  Con tutto il rispetto e la stima per i nostri partner economici, con cui è importante oggi più che mai mantenere aperte le vie del dialogo e della crescita, dobbiamo ribadire con forza l’appartenenza dell’Italia alla Nato, senza se e senza ma.

Altri annunciano un mondo felice, prossimo all’avvento, in cui tutti i «popoli» riprenderanno in mano le loro piene sovranità territoriali e i loro destini, in una deriva di frammentazione infinita: perché non tornare allora a uno Stato Sardo, a una Enclave Catalana, a una Corsica Sovrana, e così via?

Insomma, più ci addentriamo in queste discussioni, più ci convinciamo che il sistema di relazioni euro-atlantico basato su nazioni forti, connesse e interdipendenti, è – come diceva Churchill della Democrazia – «la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle sperimentate fino ad ora». E allora la vera domanda è questa: sapremo convincere gli esclusi, gli arrabbiati, i delusi della bontà della nostra «Atlantica Ratio»? Una ratio che oggi più che mai deve essere ragionevolezza,  programmazione di una crescita modulata, dialogo inclusivo, e non può risolversi solo in una postura «aggressiva e oppositiva» verso «gli altri»? Questo è il compito più impegnativo, questa è la sfida culturale di «Europa Atlantica».

Riconosciamolo: la nostra idea di «balena atlantica» non è un pesce. È una strana forma «adattiva» di grande mammifero che solca gli oceani, così forte che nessun predatore naturale osa veramente attaccarla, ma molti le si affiancano volentieri nella tranquilla navigazione. Facciamo in modo che i nostri mari vedano a lungo le sue pinne possenti, e odano di quando in quando il soffio maestoso del suo respiro.

Alberto Castelvecchi, linguista ed editore, insegna Comunicazione alla Luiss “Guido Carli”

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