Chi non conosce Greta Thunberg? Chi non ha sentito parlare dei suoi scioperi per il clima, che centinaia di studenti hanno imitato, dal Canada all’Australia, dalla Germania agli Usa?
Chi non ha presente il suo visetto, innocente e rigido insieme, che è diventato l’icona della protesta? Anche prima che Mattarella la citasse, l’abbiamo vista spuntare alla conferenza di Katowice, all’Eliseo, al forum di Davos, alla Commissione Europea dove Juncker le ha fatto il baciamano…
Forse è un po’ meno noto che le sue richieste sono tutt’altro che zuccherose. Anzi, sono le più radicali immaginabili: dimezzare le emissioni di gas serra, “non importa quanto sia scomodo o sconveniente”, “a costo di cambiare sistema”. Alcuni scioperi per il clima, come quello inglese, hanno chiesto la dichiarazione dello stato di emergenza, cioè la sospensione temporanea del normale funzionamento delle istituzioni. “Comportatevi come se la vostra casa fosse in fiamme”, raccomanda Greta, “perché lo è”. Che la stampa italiana racconti di Greta e della sua lotta, in sé, è un’ottima notizia. Ma attenti: il modo in cui le racconta può nascondere delle insidie.
Consapevolmente o meno, infatti, lo fa con toni che traviano il senso di quella lotta e finiscono per ostacolarla.
Insomma: la favola della “sedicenne che ha ridato ai giovani una causa per cui impegnarsi portandoli in piazza per un mondo più verde” è la morte dell’ambientalismo e va evitata come la peste. Perché? Per tre semplici motivi.
Primo: la lotta per l’ambiente non può ricadere solo sui giovani. Se lo fa, è condannata a fallire. Gli scioperanti per il clima lo sanno bene, tant’è che le loro faccine pulite stanno proprio lì a dirci: “Faremo i nostri compiti quando voi avrete fatto i vostri”. Se però i media associano questa lotta, anche visivamente, a profili ingenui, sognanti, colorati, la cui rabbia non sembra vera rabbia, la cui paura non sembra vera paura, l’opinione pubblica si abituerà a liquidarla come “una cosa da ragazzi”, magari “da ragazzi benestanti”, e avrà trovato la sua scusa per non prenderla sul serio. Ecco per esempio cosa scriveva venerdì Rolling Stone Italia:
“Continuate, senza tregua. Ditelo ai vostri amici. Fottete il sistema. Baciatevi, abbracciatevi, sorridete. Protestate. Agite dove stiamo fallendo noi e dove abbiamo fallito noi. Siate una generazione migliore, ve ne prego”.
Parole che alla “generazione migliore” fanno venire l’orticaria. “Abbiamo fallito”? “Ve ne prego”? Ma fateci il piacere! Muovete le chiappe e dateci una mano, invece di crogiolarvi nelle solite chiacchiere da scettici sconfitti dalla vita! Guardatevi intorno: negli anni della contestazione i giovani erano l’immensa maggioranza della società, mentre ora non ne sono che una nicchia. I giovani erano la spina dorsale del sistema produttivo, stavano nelle fabbriche o negli uffici, mentre ora ne sono tagliati fuori. I giovani erano in alto nella scala dei consumatori, mentre ora, con i loro stipendi da fame, sono all’ultimo gradino. Cosa pensate che possano fare?
Abbandonata a se stessa, la minoranza povera dei giovani non potrà mai ottenere grandi cambiamenti. Per fermare la crisi climatica, un movimento di soli giovani ha solo due strade: la supplica o la violenza. O chiedere “per favore” ai grandi, o sparargli addosso.
Gli attuali scioperi del clima sono vere e proprie suppliche rivolte ai governi. Ma che cosa accadrebbe se domattina un qualunque governo decidesse di assecondarle? Se, ad esempio, dirottasse altrove i sussidi all’energia fossile (16 miliardi solo in Italia), in poche ore dovrebbe affrontare una sollevazione di capifamiglia adulti e inferociti e una sollevazione di lobby. Quale potere negoziale resterebbe agli studenti carini coi cartelli colorati? Mettiamo in chiaro, quindi, che le iniziative come quelle di Greta sono – e vogliono essere – soltanto il primo passo verso un coinvolgimento molto più ampio e strutturato delle masse.
Secondo motivo: il futuro non è abbastanza. La lotta per l’ambiente serve anche e soprattutto a noi.
Scrive Rolling Stone: “Greta non ci chiede altro che un futuro sostenibile per lei, i suoi figli, i suoi nipoti. Un mondo in grado di superare quell’ostacolo che ora ha una data precisa: il 2050”. Ma una Greta italiana dovrebbe essere altrettanto preoccupata per i suoi genitori e i suoi nonni. Le estati sopra i 40°, che faranno strage di anziani, arriveranno molto prima del 2050. Nel 2050 gran parte del Mezzogiorno sarà desertificata, ma già oggi interi raccolti vanno in fumo ogni anno. Già adesso le regioni da cui arrivano ogni anno più migranti sono tutte nella fascia più colpita dal disastro climatico: Africa occidentale, Corno d’Africa, Pakistan e Bangladesh. E l’esodo aumenterà. Finché si continua a dare l’idea che gli ambientalisti difendano persone lontane nello spazio e nel tempo, si mistifica la realtà. E si procura, di nuovo, alla gente una scusa per non ascoltarli.
E arriviamo al terzo e ultimo punto: senza uno sbocco politico, la lotta per l’ambiente andrà sprecata. Eppure, è diffuso il tic di dipingere Greta e i suoi scioperi come un’alternativa alla politica.
I cosplayer italiani di Greta si sono affrettati a mettere le mani avanti proclamandosi apolitici. È nata addirittura “l’Onda verde e civica” (il cui nome dice tutto sull’età dei promotori: tra i più giovani la parola “civico” ha meno sex appeal di uno stufato di cavoli).
Rolling Stone nel suo sottotitolo dà al personaggio di Greta una coloritura anti-istituzionale tutta all’italiana, affermando che “si è scagliata contro l’Unione Europea” (!?!). Sono errori tattici clamorosi. La lotta per l’ambiente non può svolgersi sulle nuvole, sganciata dalla realtà della politica. Perché, come prima ricordavo, richiede scelte di governo audaci, visionarie, spesso impopolari. E per prendere le scelte bisogna aver prima preso le firme, i voti e i seggi.
L’ambientalismo non è una fuga dalle ideologie: è il loro compimento finale. Non può guardare schifato dall’alto in basso le passioni politiche che hanno infiammato il secolo scorso, perché è la loro evoluzione nel nostro secolo. È l’evoluzione naturale del liberalismo, perché in un mondo inaridito e assetato non ci sarà più posto per le libertà fondamentali. È l’evoluzione naturale del socialismo, perché cerca di eliminare dai mezzi di produzione la valenza sfruttatrice che hanno sempre avuto, non solo nei confronti degli uomini ma anche nei confronti della natura.
È l’unico modo in cui una nazione europea può fare i propri interessi senza che le nazioni vicine abbiano niente da obiettarle né sul piano economico né sul piano morale. E allo stesso tempo fa piazza pulita di tutte le contrapposizioni futili e televisive da cui il dibattito italiano è stato sequestrato per trent’anni: vecchio-nuovo, puro-impuro, italiani-stranieri, popolo-casta. Quelle, sì, un ambientalista può guardarle schifato dall’alto in basso. È un’occasione d’oro per voltare una pagina imbarazzante della nostra storia. Ma come faremo, se ci ostiniamo a parlare della lotta per l’ambiente usando quelle stesse categorie?
Qualunque partito che oggi si presentasse alle elezioni con il programma di Greta verrebbe preso a sassate. E finché continuerà ad essere così, ogni nostro spargere incenso o stracciarci le vesti per Greta sarà pura ipocrisia. Greta ce la farà quando non sarà più sola. Della sua protesta non dobbiamo raccontare soltanto quello che c’è, ma soprattutto quello che manca. E, dopo averlo raccontato, dobbiamo farlo esistere. L’ambientalismo va reso adulto, attuale e politico: forse meno grazioso di come siamo abituati a immaginarlo, ma senz’altro più efficace.