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Gli italiani con Maduro e la ricerca di un nemico necessario

Di Carmine Pinto
Maduro

Maduro ha molti amici. Una parte del sistema politico italiano, insieme a settori dell’intellighenzia e della sinistra politica, ha mostrato una simpatia, o ambiguità, verso uno dei peggiori regimi autocratici della nostra epoca. Attraverso la maggiore forza di governo, il M5S, per la prima volta il Paese non si è schierato con il fronte della democrazia atlantica e capitalista, e si è trovato quasi a fianco delle autocrazie asiatiche e di pochi regimi latini. Anche se il governo ha cercato maldestramente di recuperare (e la Lega si è presentata come sostenitrice decisa dei nemici di Maduro), il dato politico resta, fotografato dal voto nel Parlamento europeo. La posizione filo-chavista, o semplicemente anti-americana o anti-occidentale, di uno schieramento politicamente ampio, si è basata su una impressionante rielaborazione di stereotipi, funzionali a negare una lettura invece condivisa dal mondo democratico.

Il regime venezuelano ha trasformato un’antica democrazia, per quanto imperfetta politicamente e fragile socialmente, in un’autocrazia burocratizzata, basata sull’eliminazione delle voci libere e delle opposizioni, con uno stretto controllo ideologico sulla società e la sottomissione dei gruppi più deboli. Un’azione socialmente drammatica che ha provocato anche la distruzione dell’economia, l’espatrio forzato di milioni di persone e una delle peggiori crisi umanitarie della nostra epoca.

A fronte di tutto questo, nel nostro Paese (molto vicino tra l’altro per la particolare relazione con l’emigrazione italiana), i venezuelani e le forze liberali, o semplicemente attente ai diritti umani, sono state costrette, da anni e soprattutto ora, a spiegare con dati, statistiche, delegazioni, conferenze, continui dossier quello che è evidente a tutto il mondo, il carattere autocratico e violento del regime. Una realtà negata o contrastata dall’inedita convergenza tra grillini e sinistra radicale, basata sul riemergere carsico di stereotipi e modelli ideologici, funzionali a rafforzare giustificazioni identitarie e rivendicazione di ruoli efficaci nel discorso pubblico. Idee e politiche che trovano gli italiani di Maduro in buona compagnia; basti scorrere l’elenco di sinistre dell’occidente, da Jeremy Corbyn in Inghilterra alle forze del Foro di São Paulo in America Latina, passando per Noam Chomsky e arrivando a Podemos in Spagna.

Quello che li unisce è un sistema di convinzioni e di pregiudizi facilmente identificabili. Sono stratificazioni politico-ideologiche radicate nella Guerra fredda, sopravvissute al fallimento del socialismo reale e dei suoi orrori cercando di modificare logiche e ragioni sociali, ma conservando più o meno consapevolmente alcuni nuclei concettuali elementari. La moralità variabile ne è il primo esempio. In oltre vent’anni di potere del chavismo non si è mai visto un esponente di sinistra radicale o un grillino protestare contro le pratiche violente del regime o la sua catastrofe umanitaria. Né una parola, da parte di chi si indigna, in altri contesti, anche per una semplice dichiarazione televisiva o un post su Facebook. Così, se nel mondo Oliver Stone e tanti sodali hanno fatto la corte a Chávez, non sono mancati accademici, politici e intellettuali italiani pronti a passeggiate turistiche, programmi televisivi e ricevimenti di riguardo.

Non è una novità, ma spiega perché, per questo mondo, la propria esistenza si giustifica, tra le altre cose, con una proiezione esterna, un modello-altro da proteggere (a volte con sostanziosi vantaggi). C’è sempre una morale che vale solo per gli avversari, e una giustificazione storica per gli amici, qualunque essa sia e fino a quando è possibile, che porta a negare (o non vedere) anche le cose più orribili. Questa pratica propria di un certo tipo di tradizione politico-ideologica, sperimentata dai tempi di Stalin o di Mao, ha sempre avuto bisogno del nemico necessario, di agitare l’esistenza di qualcuno peggiore, o quasi sempre di inventarlo. Se il regime chavista è un’organizzazione vincolata a corruzione e narcotraffico, la soluzione è richiamare in servizio l’antico ma efficace anti-americanismo. Ovviamente, il fatto che gli Usa non abbiano bisogno del greggio venezuelano non significa nulla.

Ken Livingstone, l’ex “sindaco rosso” di Londra, per difendere Maduro, in un dibattito televisivo, ha dato la colpa della crisi venezuelana alle sanzioni Usa. E non sapeva che dire, quando l’intervistatore lo ha messo sotto torchio facendogli notare che queste non c’erano mai state (neppure nella propaganda). Non a caso, in Italia, i filo-chavisti o coloro che hanno giustificato il regime (come quello cubano), trovano nell’anti-americanismo un potente narcotico politico e uno strumento di riconoscimento emozionale. Così il leader dell’opposizione democratica, Juan Guaidò, un democratico di centro-sinistra, diventa nella loro rappresentazione una specie di quinta colonna statunitense: in un documento di un’importante associazione storica della sinistra, Trump è nominato infinite volte più di Maduro come responsabile della crisi. L’anti-americanismo ha consentito l’applauso soprattutto nel mondo digitale, ma è declinato quando si è giunti al punto di non ritorno, cioè quando Maduro è diventato indifendibile.

Ancora una volta, si è rispolverata una pratica usata con antiche dittature, l’equidistanza possibile. Cioè, in parole povere mettere gli avversari sullo stesso piano del dittatore di turno. Se Fidel Castro era protagonista di ossessive persecuzioni agli omosessuali o della trasformazione dell’isola in una caserma all’aperto, la bandiera dell’equidistanza, magari rivendicando il mito dell’embargo per giustificarla, rendeva possibile una via d’uscita politica e un tranquillizzante psicologico. E così, prima si è cercato di contrapporre la definizione di Guaidò-golpista a quella di Maduro- dittatore, poi di aggrapparsi a improbabili mediazioni per giustificare una contorta posizione del governo, oltre le pregresse dichiarazioni e analisi politiche. Questo schema ha mostrato caratteri e pratiche tradizionali, rinnovate in un contesto politico che solo a parole può ricordare la Guerra fredda.

La novità più significativa non è l’atteggiamento, forse scontato, di veterani e nostalgici della sinistra radicale, quanto l’assorbimento di questi nuclei concettuali da parte di una forza maggioritaria e di governo (il M5S), capace di plasmarli e di utilizzarli per legittimare decisioni politiche e giustificare visioni della società globale. Un processo così originale, quanto efficace, perché ha fatto emergere la fragilità della stessa sinistra democratica e dell’opposizione. A parte il centrodestra, schierato con nettezza, il Pd non è mai riuscito ad afferrare con determinazione la bandiera della libertà in Venezuela, che poteva invece qualificarlo in un passaggio così importante. Senza contare che alcuni suoi rappresentanti hanno addirittura sostenuto la posizione del governo in Europa. Non sapevano neppure che, da sempre, in Venezuela, il regime ha individuato nei socialdemocratici (una forza storicamente rilevante nel Paese) e nelle nuove formazioni di centrosinistra il nemico da distruggere.

Nella seconda fase della crisi, a partire dalla fine del gennaio 2019, il fronte filo-democratico e occidentale ha conquistato più spazio e forza, ma non è stato capace, come i popolari in Spagna o i democratici di centro in Usa, di qualificarsi come un protagonista della battaglia simbolicamente più rilevante di questa stagione, quella tra democrazia e autocrazia. L’incredibile evoluzione del confronto in Italia ha invece mostrato come alcune forze radical-populiste abbiano rinnovato e riutilizzato profili e pratiche tradizionali, facendone uno strumento della trasformazione del sistema politico.

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