“Oggi nel Mediterraneo e nel Medio Oriente viviamo una crisi importantissima e centrale non solo per la regione stessa, ma anche per noi, italiani e francesi soprattutto, i paesi che si trovano sulle sponde settentrionali del mare”. Il messaggio di Gilles Kepel è chiaro e richiama alle responsabilità politiche. Con la differenza che lo scenario post-Isis è ancora da costruire, mentre le scelte operate a partire dal 2011, soprattutto in Siria, hanno avuto delle conseguenze tragiche che ci porteremo appresso a lungo: “l’Occidente ha impiegato molto tempo a capire che l’insurrezione era già stata presa in ostaggio da radicali e jihadisti e noi in Francia abbiamo pagato un prezzo enorme per questa cecità politica; tutti gli jihadisti coinvolti negli attentati avvenuti nel 2015 e nel 2016 avevano legami con la Siria, la Tunisia e la Libia”.
Gilles Kepel in questi anni di profondi rivolgimenti geopolitici non ha mai smesso di viaggiare nell’area per seguirne da vicino gli sviluppi. Abbiamo raggiunto il politologo francese in occasione della pubblicazione del suo ultimo libro intitolato Uscire dal caos. Le crisi nel Mediterraneo e Medio Oriente (Gallimard, 2018), per la sua lettura degli avvenimenti.
Da quale prospettiva le sembra più opportuno guardare a ciò che è avvenuto e a quali conclusioni si può giungere?
Ritengo che ci si debba innanzitutto chiedere cosa è successo dopo le cosiddette primavere arabe, perché in quei giorni la maggior parte degli osservatori riteneva che il mondo arabo stesse finalmente entrando nella modernità e nella democrazia, questa democrazia all’americana vista da Francis Fukuyama come la fine della storia -dal suo libro omonimo del 1992-; cioè che il confronto tra jihadismo e regimi militari fosse concluso. Dopo alcuni mesi però le ribellioni hanno preso una direzione diversa. Gli islamisti sono stati in grado di sovvertire questi movimenti di giovani occidentalizzati e istruiti e di vincere le elezioni, come al-Nahda in Tunisia o i Fratelli Musulmani in Egitto; e abbiamo assistito a una separazione fra occidente e oriente del mondo arabo, con la Tunisia, la Libia, l’Egitto -paesi abbastanza omogenei e a maggioranza sunnita- dove nuovi regimi si sono installati sulle rovine dei precedenti, e Bahrein, Yemen e Siria dove le società erano suddivise fra sunniti e sciiti ed è stata la questione confessionale a compromettere il tentativo di emancipazione dei giovani. Questo si è visto bene in Bahrein quando i Paesi del Golfo hanno mandato rinforzi per sopprimere la rivolta dei manifestanti sciiti contro la famiglia reale sunnita. In Yemen, con la guerra fra le tribù che è divenuta ostaggio del confronto tra Iran e Arabia Saudita per il controllo della penisola araba e del Golfo Persico. E in Siria dove la rivolta contro il regime della famiglia Assad, che appartiene a una setta della confessione sciita, si è diffusa alla maggioranza sunnita della popolazione fondendosi con la guerra civile del vicino Iraq. Questa evoluzione ha portato alla nascita dello Stato Islamico, un risultato aberrante dell’aspirazione alla libertà e alla democrazia che aveva caratterizzato le primavere arabe.
Per italiani e francesi, la situazione più calda è in Libia e in Siria. Dell’anomalia libica è responsabile l’Occidente, perché si è agito con la forza militare laddove la popolazione non era in grado di scalzare Gheddafi. Ma se il sostegno a un popolo che vuole liberarsi di un despota si può concepire, la successione politica non era stata preparata, e il risultato è stato la frammentazione della Libia fra le diverse tribù che sono tutte in competizione per accaparrarsi parti dei proventi petroliferi e il controllo della tratta dei poveri immigrati africani, gli schiavi moderni. E poi ci sono gli jihadisti sparsi sul territorio. Questo è un enorme problema che ha ripercussioni dirette sulle politiche interne in Europa. Stiamo pagando un prezzo altissimo per la debolezza dell’Unione Europea, per la sua mancanza di capacità critica e la mediocrità del suo personale politico. Le elezioni del 2019 saranno una sfida importante e spero che i cittadini europei saranno in grado di portare al potere dirigenti capaci, ma la possibilità di vedere queste elezioni come un referendum di paure in favore dell’estrema destra esiste. La Libia è un problema per sé ma le conseguenze sulla nostra vita politica sono importanti.
A ciò aggiungiamo la competizione assurda tra Italia e Francia per il controllo del petrolio libico e l’appoggio di Macron a Haftar. Haftar per alcuni è un anti-democratico ma per Macron la cosa più urgente era impedire la crescita di un polo jihadista in Libia con conseguenze sui Paesi vicini, come accaduto nel 2015 in Tunisia con attentati ad opera di militanti che si erano addestrati in Libia.
Se la Libia è un problema locale e regionale, la Siria è un problema internazionale, perché qui si scontrano la mezzaluna sciita con capitale Teheran e gli allineati Baghdad, Damasco e la parte più militarizzata del Libano, quella controllata dal partito libanese Hizbullah da un lato, e l’Arabia Saudita con suoi alleati dall’altro, che si battono per il controllo del petrolio del Golfo Persico. La rivolta democratica siriana è stata dirottata dai finanziatori del Golfo che hanno sostenuto tutti questi gruppi salafiti, islamisti, jihadisti, in funzione anti-sciita, mentre Teheran ha aiutato il regime di Assad con la brigata al-Quds e con i miliziani sciiti di Hizbullah, Pakistan, Afghanistan e Iraq, che hanno preso il posto della fanteria sunnita dell’esercito siriano che non voleva più combattere.
La maggioranza dei Paesi occidentali ha appoggiato l’insurrezione e ora abbiamo lasciato la porta aperta per il ritorno della Russia quale grande potenza stabilizzatrice nella regione, e insieme all’arrivo dello Stato Islamico, sono i due fattori che hanno contribuito a mantenere Assad al potere. Ora che l’insurrezione è agli sgoccioli, il problema è dove andranno tutti questi ribelli e jihadisti che si sono rifugiati a Idlib, nei pressi del confine turco, dopo la caduta delle loro roccaforti, e che né la Turchia né l’Occidente vogliono vedere attraversare il confine.
E allora, qual è la via per uscire dal caos?
È necessario tentare di capire come si può lavorare a una politica di ricostruzione della Siria. Possiamo amare o meno la Russia, ma in questo momento è un paese molto importante nel Medio Oriente. Tutti parlano con la Russia, lo fa Israele, lo fanno l’Arabia Saudita, la Turchia, l’Iran e anche l’America. La Francia e l’Italia intrattengono delle relazioni, ma l’Unione Europea in sostanza è assente. È questa la cosa principale, pensare al Medio Oriente dopo l’Isis. Ma non siamo ancora in grado di farlo perché le classi politiche europee non hanno capito la natura della sfida.
Ci sono dei punti di riferimento nella regione mediorientale oggi, a cui l’Europa può guardare per costruire una relazione positiva?
A Lugano abbiamo tentato di creare con l’Università della Svizzera italiana questa piattaforma del libero pensiero sul Medio Oriente e il Mediterraneo organizzando un incontro a cui hanno partecipato più di 150 giovani provenienti da paesi che vanno dall’Iran al Marocco, per mettere in rete la società civile. Visto che le élite politiche hanno fallito e la diplomazia non funziona più, ci proviamo noi accademici, nella sede neutrale della Svizzera italiana, che è naturalmente portata a guardare verso il Mediterraneo. Il nostro ospite d’onore per il 2018 è stata la Tunisia, unico esempio di un paese dove le istituzioni democratiche sono più o meno funzionanti, mentre la vera sfida è piuttosto di natura economico-sociale. Credo che quello tunisino, possa essere un buon modello per il mondo arabo, che dobbiamo sostenere. L’anno prossimo al Forum di Lugano inviteremo il Libano, e in quell’occasione penseremo a come ricostruire il Levante.
Tunisia in cui c’è un’apparente contraddizione, poiché l’esperimento democratico per eccellenza è anche uno dei Paesi con il maggior numero di combattenti partiti per la Siria…
Si, fra 4000 e 6000 individui. La Tunisia è divisa fra una zona litoranea abbastanza prospera e un hinterland dimenticato e la necessità dell’integrazione economica è legata alla costruzione di un futuro. Noi europei possiamo essere di grande aiuto.
Immigrazione incontrollata e Islam radicale sono le parole d’ordine nel dibattito pubblico e politico soprattutto in Italia. Ma non sfuggiranno altre questioni altrettanto importanti per il futuro dell’Europa?
Sono questioni percepite tra le più urgenti dalla gente e dall’elettorato. Allo studio dell’islamismo radicale ho consacrato quasi tutta la mia vita, ma dopo 40 anni non posso dire che abbia avuto molta influenza sulla politica, perché la cecità delle nostre élite è enorme. Anche la questione dell’immigrazione è importante, e il mio primo libro su questo tema è del 1987 (Les banlieues de l’Islam, ndr). Anche in questo caso, non c’è stato riscontro. Sarebbe stato meglio pensare a questo fenomeno prima che assumesse queste proporzioni, ma ci sono anche altri problemi da considerare: come la crescita demografica nel sud-est del Mediterraneo contrapposta alla debolezza demografica dell’Europa. Una paura, quella del rimpiazzo demografico, che viene utilizzata dell’estrema destra.
Chiara Sulmoni, giornalista e analista indipendente
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