Provate a immaginare lo stupore dell’opinione pubblica internazionale se un giorno lontano un Papa dovesse aprire la Porta Santa di un Giubileo in Cina, così come Francesco ha fatto nel 2015 a Bangui nel cuore dell’Africa. Quel giorno forse si ricorderà Papa Francesco che la sua personalissima “Via della Seta” l’ha prima sognata, poi preparata e infine avviata.
Che l’apertura alla Cina, il colosso asiatico, fosse un sogno di Francesco, lo abbiamo capito sin dai primi passi del suo pontificato segnato dal cambiamento. Di sicuro ne parlò in occasione del suo viaggio apostolico, nel 2014, in Corea del Sud. Il terzo in assoluto del suo inizio pontificato, dopo il Brasile e la Terra Santa. Una scelta, quella del continente asiatico, che aprì uno squarcio sulla visione geopolitica del Papa argentino. Nel colloquio in aereo con i giornalisti, rispondendo a una domanda del vaticanista della Rai Fabio Zavattaro, Francesco rivelava: “Quando stavamo per entrare nello spazio aereo cinese, io ero nel cockpit (cabina di pilotaggio n.d.r.) con i piloti, e uno di loro mi ha fatto vedere lì un registro e ha detto: ‘Mancano dieci minuti per entrare nello spazio aereo cinese, dobbiamo chiedere l’autorizzazione. Si chiede sempre, è una cosa normale, ad ogni Paese si chiede’. E ho sentito come chiedevano l’autorizzazione, come si rispondeva… Sono stato testimone di questo. E il pilota ha detto: ‘Adesso va il telegramma’, ma non so come abbiano fatto. Così… Poi mi sono congedato da loro, sono tornato al mio posto e ho pregato tanto per quel grande e nobile popolo cinese, un popolo saggio… Penso ai grandi saggi cinesi, una storia di scienza, di saggezza… Anche i gesuiti: abbiamo storia lì, con padre Ricci… E tutte queste cose venivano da me. Se io ho voglia di andare in Cina? Ma sicuro: domani! Eh, sì. Noi rispettiamo il popolo cinese; soltanto, la Chiesa chiede libertà per la sua missione, per il suo lavoro; nessun’altra condizione”.
Quelle parole non sfuggirono ai commentatori di cose vaticane, così come non era un caso che per la prima volta venisse concesso a un pontefice di attraversare lo spazio aereo cinese. Permesso non attribuito a Giovanni Paolo II, nel lontano 1989. Così come non poteva passare inosservata l’accoglienza positiva, da parte del regime cinese, del telegramma papale di saluto. Per non dire di una singolare circostanza: Francesco eletto Papa un giorno prima (13 marzo del 2013) dell’elezione di Xi Jinping (14 marzo dello stesso anno) alla presidenza della Repubblica popolare cinese. Due uomini nuovi per gestire, se possibile, un tempo nuovo dei rapporti fra la Chiesa cattolica e l’impero cinese.
Poi la lunga fase di preparazione e di dialogo sotterraneo fra le delegazioni delle due parti, sino al clamoroso “Accordo provvisorio” che ha sancito il riavvicinamento della Chiesa patriottica cinese alla Chiesa di Roma, l’accoglienza nella piena comunione dei vescovi “ufficiali” ordinati senza mandato pontificio e l’intesa sulle future nomine dei vescovi. Accordo strenuamente voluto e difeso dallo stesso Francesco che nel recente viaggio di rientro dai Paesi Baltici ha speso parole chiare: “Voi sapete che quando si fa un accordo di pace, ambedue le parti perdono qualcosa. Questa è la legge: ambedue le parti. Si è andati con due passi avanti, uno indietro… due avanti e uno indietro. Poi mesi senza parlarsi. È il tempo di Dio che assomiglia al tempo cinese. Lentamente, la saggezza dei cinesi… L’accordo l’ho firmato io, le lettere plenipotenziarie le ho firmate io. Io sono il responsabile, gli altri hanno lavorato per più di dieci anni. Non è un’improvvisazione, è un vero cammino”.
Quando il Papa parla della Cina, il pensiero va subito al lavoro paziente del Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. E ancora a lui bisogna fare riferimento per immaginare il futuro dei rapporti della Santa Sede con il gigante asiatico. Se, come spiega Parolin nella prefazione al libro di padre Antonio Spadaro (“La Chiesa in Cina. Un futuro da scrivere”), “la Santa sede si augura di poter collaborare con la Cina anche sui temi della pace, dell’ambiente, dell’incontro tra le culture, favorendo la pace e aspirando al bene dell’umanità”, restano in primo piano le finalità primarie della Chiesa cattolica: salus animarum e libertas ecclesiae.
Ecco, non possiamo dubitare della fermezza della Chiesa cattolica romana nel difendere la salvezza delle anime e la libertà religiosa. Tutto questo dovrebbe tranquillizzare i credenti che fanno fatica ad accettare l’Accordo pensando alle sofferenze e alle persecuzioni patite dai cristiani in Cina. Ma dovrebbe essere di monito anche per quanti con faciloneria profetizzano l’incontro fra Xi Jinping e il Papa come una sorta di legittimazione dei governanti cinesi agli occhi del mondo.
La verità è che la Cina è divenuta la superpotenza mondiale che tutti conosciamo e con la quale bisogna fare i conti. Ma proprio per questo gli altri Paesi, Italia compresa, hanno forse qualcosa da imparare dalle intese diplomatiche di cui abbiamo parlato: quali sono i grandi valori che, ad esempio, spingono un Paese come l’Italia a facilitare la Via della Seta? I commerci non sono garanzia assoluta né di pace né di benessere. Gli aiuti finanziari non lo sono da meno, anzi talvolta possono rivelarsi delle pericolose trappole egemoniche. Forse varrebbe la pena giocare una partita così grande, come quella del corridoio transcontinentale promosso da Pechino, con una visione coraggiosa dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali. Una visione che forse abbiamo solo dimenticato, presi come siamo dalle nostre beghe di cortile. Per questa ragione va seguita con interesse la visita di Xi Jinping (dal 21 al 23 marzo) nel nostro Paese. Se poi coglierà l’occasione per incontrare Papa Francesco, o solo per rivolgergli un pensiero, sarà tutta storia da raccontare. Dal canto suo, Francesco non abbandonerà mai il sogno del gesuita e servo di Dio Matteo Ricci (1552 Macerata – 1610 Pechino), di far risuonare nel “Regno di Mezzo” il canto della fede cristiana con parole e suoni cinesi.