A un anno dalle elezioni politiche, che hanno segnato la sconfitta, e dopo tanti mesi di attesa, finalmente, si svolgono le primarie per l’elezione del segretario nazionale del Partito democratico. C’è voluto troppo tempo per arrivare a questo congresso, che – data la dimensione della sconfitta del 4 marzo – era apparso necessario, addirittura doveroso, immediatamente dopo il voto.
Il Pd usciva da cinque anni di governo con un carnet di risultati positivi: sulla ripresa economica e, sia pur in ritardo, anche su migranti e lotta alla povertà. Il duro colpo elettorale lo ha tramortito, immobilizzato e ha prodotto l’assenza, nei mesi successivi, di un’opposizione significativa allo strabordante impeto egemonico di Salvini e alla conseguente, progressiva, sudditanza di Di Maio.
Subito dopo il voto, il Pd si è imbarcato in una discussione sterile sull’opportunità, o meno, di un rapporto con i 5 Stelle e sul dilemma se attendere la rapida implosione dei gialloverdi o attrezzarsi a una lunga marcia nel deserto. Con il risultato che si sono persi mesi preziosi, mentre era necessario, con un tempestivo Congresso, rimettere in moto rapidamente energie proprie, non dipendenti da parabole altrui.
Comunque, ora ci siamo. E per quei misteriosi processi che la politica ci riserva, senza che nessuno lo avesse preordinato, le primarie del Pd si svolgono ora proprio nel mezzo della prima, vera crisi della maggioranza che, ancora vincente, non è però trionfante come sembrava fino a qualche settimana fa. Le elezioni regionali hanno aperto un varco che sembrava chiuso: la costruzione dell’alternativa. Si tratta, dunque, di cogliere al meglio questa condizione, anche in vista delle elezioni europee.
La discussione sulla formula con la quale ci si presenterà al voto è in pieno corso, ma è del tutto evidente che, uno o trino, il centro sinistra debba prima di tutto presentarsi – e soprattutto essere percepito – come “unito” negli intenti e negli obiettivi agli occhi degli elettori, soprattutto di quelli sfiduciati, astensionisti e in libera uscita.
Sostenere un esplicito schieramento pro Europa – un’Europa riformata! – e scegliere un modello di sviluppo “equo e sostenibile”, rappresenta una prospettiva, non solo un programma. Troppo generico? Diversamente da quanto scrive Massimo Giannini (la Repubblica del 2 marzo), leggendo le mozioni si capisce che il nuovo Pd intende partire dalla condizione di “normale” e faticosa quotidianità delle persone, vuole occuparsene e dare risposte. Certo, il cammino è tutto in salita, ma la strada è questa. A meno che non si pensi semplicemente che il Pd sia finito.
Vedremo… Ma oggi, a due mesi dal voto europeo e – come sostiene più di un osservatore – a poca distanza dalle politiche in primavera 2020 (Paolo Gentiloni, che raccoglie il maggiore gradimento tra gli elettori del centrosinistra, lo ha ripetuto più volte, in questi giorni), il Pd rappresenta il punto di snodo di qualsiasi ipotesi politica alternativa alle destre. E ciò, nonostante tutti i suoi limiti e le sue debolezze.
La presa di coscienza, da parte dei candidati alla segreteria, che il Pd non sia autosufficiente rafforza questo ruolo di collante del centro sinistra. La stessa iniziativa di Carlo Calenda, con “Siamo Europei”, positiva e di successo, può ambire, legittimamente, ad uno spazio proprio. Ma da sola non costituisce una alternativa al centro destra. Tanto meno potrebbe esserlo la mini coalizione di Più Europa, Verdi e Sindaci.
Ecco perché queste primarie, strumento probabilmente logoro, travalicano il loro scopo interno al Pd e, come ripete Zingaretti, sono “per l’Italia”. Per questo c’è da augurarsi che il numero di votanti sia alto e che il candidato vincente superi il 50%.
Da lunedì, infatti, l’agenda è così intensa che non abbiamo bisogno di altri rinvii.