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Il provincialismo dei commentatori italici e le lezioni di inglese a Giorgetti

Che gli italiani non abbiano molta dimestichezza con le lingue, e cioè prima di tutto con l’inglese, che è la lingua “veicolare” (come si dice con brutto termine) nelle relazioni internazionali, è un dato di fatto. Che però ogni volta che un esponente governativo inciampi nella lingua di Shakespeare, ci sia qualcuno in patria pronto a canzonarlo o a indignarsi è a mio avviso un segno di provincialismo.

Giancarlo Giorgetti, che è il vero tessitore delle alleanze della Lega e del governo (di cui è sottosegretario alla presidenza del consiglio), è stato criticato per il suo inglese approssimativo sfoderato in varie occasioni nel corso del suo recente viaggio americano.

È l’ultimo di una lunga serie di politici ugualmente canzonati, che parte dalla prima Repubblica e giunge fino alla Seconda con gli esempi eclatanti dei due presidenti del Consiglio forse più significativi degli ultimi lustri: Silvio Berlusconi e Matteo Renzi. I quali, sforzandosi di farsi capire senza l’intermediazione di un traduttore, si sono cimentati in difficili discorsi ufficiali destando perplessità davanti ai convenuti e ai leader. Berlusconi fu addirittura bonariamente deriso da Bush jr alla Casa Bianca, ma ciò non impedì al presidente americano, di tenere sempre in gran conto l’Italia e il ruolo che il nostro Paese svolgeva accanto all’America nei teatri di guerra sparsi per il mondo. Nel Cavaliere, in effetti, la spinta a cimentarsi con l’albionico idioma veniva più che altro dalla sua volontà di piacere a tutti e a tutti compiacere. Era la strategia della “pacca sulla spalla”, che pretendeva per gli avversari di ridurre la diplomazia a rapporti personali. I quali, però, non dimentichiamolo, una loro parte significativa la giocavano e continuano a giocarla nei rapporti internazionali.

In Renzi c’era invece secondo molti la supponenza e persino l’arroganza del primo della classe, il quale vuole mostrarsi più bravo degli altri ed è convinto di poter vincere ogni sfida, anche le più impervie e su terreni non propri. Cosa invece può aver spinto il mite Giorgetti a far meno del traduttore non è dato capire, né i testimoni degli incontri in cui si sarebbe verificato il fattaccio sono particolarmente attendibili (per lo più giornalisti della stampa di opposizione al governo, cioè quasi tutta).

Si è arrivati a parlare persino di “umiliazione” per l’Italia e di “disastri” diplomatici. Quasi che gli uomini di affari e quelli di diplomazia siano degli arcigni insegnanti di un corso di inglese e non gli attenti osservatori di fatti concreti.

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