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Trump e Russiagate, l’impeachment è lontano. Molto rumore per nulla?

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Se non fossi in imbarazzo a citare Shakespeare, direi “Much Ado About Nothing”, “molto rumore per nulla”. Ché il rapporto del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate, cioè l’inchiesta sull’intreccio di contatti nel 2016 tra la campagna di Trump ed emissari del Cremlino, non assolve e non condanna, non certifica l’innocenza (del magnate allora candidato e ora presidente) ma neppure ne prova la colpa.

E se avessi – e un po’ ce l’ho – la coda di paglia dell’oppositore di Trump deluso, ché sperava che l’indagine di Mueller contribuisse a liberarcene, starei ora qui a ricordare che quel magistrato, onesto e integerrimo, era ed è comunque un repubblicano “storico”, mica uno spericolato “liberal”, come fa sul suo blog l’amico e collega Oscar Bartoli.

Il fatto è che, del rapporto di Mueller, sappiamo forse l’essenziale, ma non sappiamo tutto. E, nell’attesa che il Congresso ottenga il documento integrale, o che i media americani trovino nell’amministrazione Trump una gola profonda del XXI Secolo – non dovrebbe essere soverchiamente difficile -, bisogna contentarsi delle quattro paginettine pubblicate dal segretario alla Giustizia William Barr, che non solo è un repubblicano, ma è pure un amico di Trump, il che di Mueller non si può dire.

Barr certifica che l’inchiesta non ha trovato prove che la campagna di Trump abbia cospirato e trescato con i russi per condizionare il voto. Però, “se il rapporto non conclude che il presidente abbia commesso reati, neppure esclude” che abbia tentato d’intralciare la giustizia, ad esempio subornando e poi licenziando il direttore dell’Fbi James Comey. Ciò detto, Barr e pure il suo vice, Rod Rosenstein, un altro repubblicano non amico di Trump, concordano: manca la pistola fumante e non c’è materia per incriminare il presidente.

Trump gongola e ricicla il mantra della caccia alle streghe con cui ha costantemente bollato l’inchiesta durata 22 mesi e costata 45 milioni di dollari ai contribuenti americani. I democratici s’arroccano, chiedendo la pubblicazione di tutto il rapporto, magari, dentro ci trovano una chicca. E il New York Times ammette, un po’ controvoglia, che la chiusura dell’indagine rasserena l’orizzonte della presidenza Trump e rafforza il presidente per le battaglie a venire, prima e principale quella per la sua rielezione l’anno prossimo.

L’ombra dell’impeachment, che gravava sul magnate e showman alla Casa Bianca, s’allontana. Ma restano tutti gli affari del presidente, emersi nell’indagine ed evocati nel rapporto, il più atteso nella storia d’America, forse dopo il rapporto Warren sull’assassinio Kennedy e quello pruriginoso sul caso Lewinsky.

L’inchiesta Russiagate si articola in diversi filoni. L’azione anti-Hillary Clinton, la rivale di Trump al voto, di hacker russi e di Wikileaks e la manipolazione dei social; il negoziato per costruire a Mosca una Trump Tower; l’incontro con emissari russi nella Trump Tower a New York; i contatti, un centinaio, con emissari russi e con altri funzionari stranieri; il sospetto di ostruzione alla giustizia che grava, in particolare, sul presidente.

Oltre a Paul Manafort, manager della campagna, e Michael Cohen, l’avvocato di fiducia, entrambi già condannati in procedimenti collaterali, personaggi più vicini a Trump coinvolti sono l’amico e consigliere Roger Stone, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn, il braccio destro di Manafort Rick Gates.

Di sicuro, per Trump i problemi giudiziari non sono finiti. Russiagate a parte, i giudici di New York stanno indagando sulla Trump Organization e sulla campagna 2016 per vagliare eventuali violazioni alle norme sui finanziamenti elettorali, e sull’organizzazione della cerimonia d’insediamento. Inoltre, i democratici alla Camera hanno sotto inchiesta le dichiarazioni dei redditi di Trump – primo presidente a non pubblicarle –, la concessione al genero Jarred Kushner e ad altri familiari del nulla osta di sicurezza della Casa Bianca; i legami d’affari con la Deutsche Bank e i contributi giunti al magnate e showman da governi stranieri.

Fiumi di parole in prospettiva. Con il rischio che Shakespeare resti d’attualità, “Much Ado About Nothing”, “molto rumore per nulla”.

 

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