Oggi viviamo in un tempo di semplificazione, la comunicazione, intensa nel suo senso originale, è il totem indiscusso di tutte le civiltà, il minimo comune denominatore in ogni contesto.
Tutto deve essere chiaro, lineare, diretto, ogni cosa deve avere un’eco sorprendente, una diffusione addirittura innaturale per esistere, per sopravvivere.
Si deve competere: il messaggio è chiaro a tutti, perché la competizione è scontro e lo scontro crea attenzione ed in certi casi anche consenso.
Semplificare, però, risulta impossibile in contesti ove la complessità non è superabile e proprio in questa contraddizione spicciola nasce e si sviluppa la crisi, o meglio le crisi che, si badi bene, non sono semplici crisi di settore, non investono un singolo campo della globalità.
Negli ultimi venti anni è stata in crisi la pace, la finanza, la sicurezza, la democrazia stessa e di volta in volta si è voluto individuare il problema nella singolarità, più o meno rilevante che fosse, mai nel complesso: la crisi, però, è di sistema e questo, più o meno direttamente, lo sappiamo tutti.
Ieri il dominio del politico “domestico” attento alle specifiche esigenze del territorio-feudo (e di riflesso sue proprie) piuttosto che della lobby di riferimento era già ritenuta dall’opinione pubblica un male grave ma dopotutto non gravissima, oggi è maturata – ed in modo definitivo – la consapevolezza della necessità di un cambiamento drastico, se necessario traumatico.
Qualcosa di assai più grande di quanto molti si ostinino a non voler vedere è accaduto, il mondo è cambiato e l’Occidente non è più il protagonista assoluto dei processi che governano il pianeta.
Soltanto inquadrandole in quest’ottica le relazioni tra Stati Uniti ed Europa e, più in generale, tra potenze occidentali hanno un senso, appaiono da una prospettiva non falsata.
Sarebbe fuorviante voler leggere nelle linee tenute dai singoli governi una flessione in negativo delle relazioni internazionali, il moto è partito dal basso per poi salire, velocissimo, arrivando a travolgere un vasto establishment a cui non è stato dato neppure il tempo di fare le valigie. Di questo hanno percezione tutti fuorché quelli che sono stati travolti dall’onda anomala del cambiamento, che sono stati messi fuori e che continuano a combattere misteriosi nemici immaginari.
Si assiste a uno scenario paradossale: per la prima volta gli uomini si accorgono che il mondo dell’informazione e quello reale sono in antitesi, uno è falso, l’altro amaramente vero.
Non c’è un irrigidimento dei rapporti fra Usa ed Europa, semplicemente assistiamo ad un assestamento al quale non eravamo preparati dal punto di vista culturale. Quanti, del resto, avrebbero previsto mutamenti tanto radicali nel tessuto connettivo del sistema-mondo?
Neoliberismo, globalizzazione e capitalismo, sia pure in forma ristrutturata, hanno finito per convergere rafforzandosi vicendevolmente e creando una intesa formidabile, un potere assoluto e sicuro dei propri mezzi al punto tale di aver perso cognizione della realtà e di essersi estraniato in un Olimpo popolato da pochi eletti, contro i quali montava un odio tutt’ora crescente.
Questa élite decadente che derideva i complottisti lontani e vicini, oggi si trova, per uno scherzo strano del destino, a gridare a gran voce al complotto dell’informazione inquinata, evocando grottesche derive eversive e manipolazioni di regime senza mai comprendere di essere essi stessi, ciò che essi rappresentano, la ragione profonda di quell’odio, del grande senso di disprezzo che le persone comuni gli riservano.
L’Europa troverà una sintesi, se per buona volontà o per necessita estrema fa poca differenza, imparerà ad auto-tollerarsi con maggiore serietà, rispettando con più attenzione le sensibilità e le esigenze dei popoli e stabilendo un maggiore equilibrio interno, affinché a pesare, prima dei conti, siano le tradizioni, le radici, le culture degli uomini. Perché ciò accada nel modo migliore possibile, però, non abbiamo altra scelta che quella di rispettare i patti, dobbiamo essere d’esempio, accompagnare il rinnovamento per renderlo meno traumatico.
Oggi tornano a parlare ed a contare i Paesi, oltre i vincoli stretti della burocrazia, le individualità trovano sempre più falle, la richiesta di un ritorno ad un’umanità dei valori non può rimanere inascoltata.
Il tempo dell’espansionismo, del modello unico di sviluppo sono questioni consegnate alla storia, dobbiamo indirizzare le forze per comprendere il nuovo stato di cose, e le cose complesse, dicevo prima, vanno prese per quel che sono.
Oggi lo strumento di ognuno ha un suo peso e per ora, il direttore d’orchestra manca.
Per conto mio, più per rigore storico che per campanilismo, credo che questa molteplicità di possibilità favorisca il nostro paese, che più di ogni altro ha capacità di adattamento e differenziazione.
Siamo tornati ad essere strategici per geografia e politica, l’Italia è un grande laboratorio per il futuro del mondo.
Marta Grande, Presidente della Commissione affari esteri della Camera
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