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Vi spiego perché ho scelto di scendere in campo con Giorgia Meloni. Conversazione col generale Bertolini

“La situazione attuale richiede anche ai soldati la forza di non girarsi dall’altra parte”. Per questo, il generale Marco Bertolini ha scelto di scendere in campo e di candidarsi alle prossime elezioni europee con Fratelli d’Italia, il partito guidato da Giorgia Meloni che ieri a Torino ha aperto la sua campagna elettorale in vista dell’appuntamento del 26 maggio. Il generale ha spiegato a Formiche.net il nuovo impegno politico, senza sottrarsi alle domande di attualità, a partire dalla Libia. Già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi), del Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (Cofs) e della Brigata paracadutisti Folgore, Bertolini ha servito il Paese in varie missioni all’estero, in Libano, Somalia, Afghanistan e Balcani. Nel 2009 è stato il primo italiano ad aver ricoperto il ruolo di capo di Stato maggiore del comando Nato Isaf in Afghanistan.

Generale, cosa l’ha spinta a scendere in politica con Fratelli d’Italia?

Mi è stato chiesto da Giorgia Meloni e ho aderito volentieri, per quanto non a cuor leggero. Ho ritenuto opportuno aderire perché credo che ci troviamo in un momento nel quale vengono messi in discussione dei valori di riferimento, anche delle Forze armate, di cui continuo a sentirmi parte sebbene non sia più in servizio. Si tratta di un’erosione di valori che rischia di provocare danni epocali, e per questo penso sia giusto che anche i militari facciano sentire la propria voce. Personalmente l’ho sempre fatto, scrivendo e intervenendo quando richiesto su temi di carattere geostrategico o relativi a problemi interni. Ora, penso sia un bene che tali opinioni possano trovare anche risonanza politica.

Quali problemi affliggono secondo lei il comparto della Difesa in Italia?

C’è prima di tutto una situazione di crisi cronica che affonda le sue radici nella mancata consapevolezza da parte delle nostre classi politiche (uso il plurale intenzionalmente, dato che il problema non è di un singolo schieramento) di ciò a cui servono le Forze armate.

Cosa intende?

Le classi politiche hanno una certa difficoltà a capire che le Forze armate non sono un semplice strumento di emergenza da impiegare in casi particolari. Esse rappresentano piuttosto uno strumento ordinario di politica estera, soprattutto per un Paese come il nostro che presenta una particolare collocazione geostrategica. Nel Mediterraneo si muovono molteplici sfide e minacce, ed è importante che l’Italia si faccia sentire politicamente ed economicamente, ma anche con uno strumento militare adeguato. Altrimenti i diritti che rivendichiamo restano solo auspici. Da tale problema cronico di mancata consapevole ne derivano molti altri.

Ad esempio?

Ad esempio il pauroso sotto-finanziamento del nostro strumento militare. Ormai impieghiamo i soldati nelle nostre strade (mi lasci dire come poliziotti di serie B), mentre leviamo loro risorse finanziarie, poligoni, materiali e mezzi per l’addestramento. Eppure, il loro primo compito è prepararsi. Al momento possono farlo solamente nei mesi immediatamente precedenti il loro dispiegamento nei teatri in giro per il mondo, proprio perché non ci sono risorse per tutti. Mi capita spesso di parlare con giovani capitani e tenenti che hanno superato selezioni difficilissime (più difficili rispetto ai miei tempi) e che ora si sentono spaesati perché privi di un riferimento. Anche tanti giovani entrati come volontari in ferma prefissata, dopo mesi di guardia in qualche gabbiotto nelle nostre città, provano gli stessi sentimenti poiché sentono tradite le loro aspettative nella carriera militare. A tutto questo si aggiungono alcuni provvedimenti all’ordine del giorno di cui sono particolarmente critico. Tra questi, il tema della sindacalizzazione delle Forze armate, pompato come se si trattasse di un grande risultato culturale. In realtà, rischia di incidere sulla natura stessa delle Forze armate. Se al comandante si sottrae parte della responsabilità poiché non è più l’interlocutore unico dei suoi uomini, lo si priva della sua funzione di comandante.

Eppure, dai promotori del provvedimento sono arrivate molteplici rassicurazioni su temi come scioperi e contrattazioni.

È vero, ma sono state anche annunciate proteste. Personalmente, credo che un militare che protesta non sia un militare. Potrà anche essere in grado di utilizzare un’arma, ma non è un militare perché non ne possiede il fondamento etico e la disciplina. Non si può ridurre quello militare a un semplice lavoro come tanti altri. Per questo ritengo che la sindacalizzazione rappresenti un attacco fenomenale alle Forze armate destinato a smilitarizzarle.

La cronaca degli ultimi giorni ci porta ad affrontare l’intricato dossier libico. C’è possibilità di risolvere l’escalation?

Dovevamo essere preparati a questa situazione. Haftar è indubbiamente l’uomo forte in Libia. Era difficile immaginare che si rassegnasse a fare il semplice governatore della Cirenaica del nord rispetto a Serraj, riferimento della comunità internazionale. Sta succedendo quello che forse ci si doveva aspettare, sorprendente probabilmente solo nelle tempistiche. Per quanto riguarda la soluzione della crisi, non credo che Haftar punti a fare di Tripoli una nuova Stalingrado, soprattutto dopo anni di dissanguamento delle proprie truppe a Bengasi e Derna. Anche per questo nella sua avanzata si è diretto prima a sud, nel Fezzan, così da togliere ossigeno alla tripolitania. L’obiettivo potrebbe essere di mettere pressione alle milizie di Tripoli per vedere se queste fanno cadere Serraj senza necessità di un intervento diretto. Certo, Haftar deve fare i conti anche con altre forze in campo. Le truppe di Misurata non si sono ancora impegnate a fondo; rappresentano la forza principale di Serraj ma anche quella meno fedele, legata ai Fratelli Musulmani.

Come si esce da questo intrigo di forze e interessi?

Si uscirà forse da tale situazione quando Haftar, che si sente il più forte sul campo, si riterrà vincitore. Non credo che ciò arriverà dopo una battaglia. Più probabile un colpo di Stato a Tripoli o un accordo con Serraj che gli riconosca una posizione di forza non solo sulla Cirenaica.

E l’Italia?

Il nostro Paese si trova in una situazione di apparente impotenza. Apparente perché l’Italia è attiva e presente con i propri servizi per cercare di indirizzare gli avvenimenti affinché siano meno traumatici possibili per noi. Abbiamo però solo da perdere nella crisi. Certo, nel lungo periodo (parliamo di almeno cinque anni) avere un interlocutore unico ci consentirà di affrontare in modo più coordinato i problemi che vengono dalla Libia. Nel breve la situazione è molto rischiosa. Se i combattimenti dovessero cronicizzarsi, il controllo della migrazione diventerebbe insostenibile.

Nel Vecchio continente il trend più rilevante nel settore a lei vicino riguarda la Difesa europea. Che idea si è fatto della spinta di Bruxelles, ad esempio nel fondo da 13 miliardi per 2021-2027?

Personalmente, ora come ora, non credo nella Difesa europea. Come dicevo prima, soprattutto in Europa, dove non temiamo più l’aggressione da parte di un Paese vicino, le Forze armate sono prima di tutto uno strumento di politica estera. Non essendoci una politica estera comune, come possiamo averne una di difesa? È una cosa improponibile. Facciamo un esempio: la Francia consentirà di utilizzare la sua Force de frappe per altri fini? Non credo, anche perché è stata costituita ai tempi di De Gaulle proprio per garantire indipendenza dagli Stati Uniti. Oppure si pensi all’operazione francese Barkhane nel Sahel, che impiega migliaia di uomini senza rendere conto agli altri europei, nemmeno all’Italia, nonostante gli effetti che genera sul nord Africa, a partire dalla Libia.

Alcuni esperti notano il rischio di una Difesa europea guidata da Francia e Germania. È d’accordo?

Di certo non possiamo impedirlo, a meno di investire nelle Forze armate tanto quanto investono loro. Non possiamo avanzare le stesse ambizioni di Parigi e Berlino se non le supportiamo partecipando con risorse, unità operative, materiali e addestramento. La vedo una cosa abbastanza difficile.

Per chiudere, vuole aggiungere qualcosa?

Tornando al mio nuovo impegno politico, mi lasci dire che esso non cambia il mio approccio nei confronti delle istituzioni. Continuo a considerarmi un uomo delle istituzioni; anche se ho dovuto scegliere una parte, resto al servizio del Paese. La situazione attuale richiede pure ai soldati la forza di non girarsi dall’altra parte. Ci sono provvedimenti che stanno per essere presi (e ne abbiamo parlato prima) che altereranno decisamente la natura delle Forze armate e toglieranno motivazione al personale. Sarebbe profondamente ingiusto.

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