Skip to main content

Il Califfato in Siria è stato sconfitto. Oppure no

Di Bianca Senatore
trump stato islamico, isis, al qaeda

A metà marzo Baghuz, ultima roccaforte dello Stato Islamico in Siria è caduta. La notizia era attesa ormai da giorni dai media occidentali che hanno seguito gli echi dell’accerchiamenti degli irriducibili dentro l’ultimo fazzoletto di terra marchiato dal califfato. Le Forze democratiche siriane (Fds), l’alleanza curdo araba dominata dalle Ypg e sostenuta dagli Stati Uniti hanno issato su Baghuz la loro bandiera: una nota di colore, un simbolo, per ribadire il messaggio: “abbiamo vinto noi, siete stati sconfitti”. Ma è davvero così?

Effettivamente, dal punto di vista militare l’Is (Islamic State) è stato sbaragliato ed è stato un grosso smacco per il Califfato, che fin dalla sua auto-proclamazione ha puntato tutto sul concetto di “conquista” del territorio. L’idea che Is ha voluto diffondere nel mondo è che ci fosse un progetto in evoluzione. Ne sono un esempio i vari nomi con cui all’inizio Is si è presentato: prima al-Qaida in Iraq (Aqi); poi Stato Islamico in Iraq (Isi); poi ancora Stato Islamico in Iraq e nel Levante (Isil/Isis); fino a giungere all’attuale Stato Islamico (Is). Che l’obbiettivo fosse conquistare terreno e spazzare via i confini lo si era capito da uno dei primi video realizzati dalla casa di produzione dell’Is, Al-Ayat (con logo in hd molto simile a quello dell’emittente Al jazeera) intitolato “La fine di Sykes-Picot”. Il riferimento è ai patti franco-britannici del 1916 firmati da François Georges-Picot e sir Mark Sykes, con cui dopo la Prima guerra mondiale, Londra e Parigi sostanzialmente si spartirono le zone d’influenza in Medio Oriente.

Nel video c’è un giovane con la barba che si presenta come “Abu Safiyya from Chile”, inizia parlando in arabo e poi impercettibilmente passa all’inglese. Un dettaglio non casuale perché l’obiettivo del filmato era anche far capire che il progetto del califfato non era rivolto solo agli iracheni e ai siriani ma a tutti i musulmani del mondo e in generali a chi si convertisse. Il ragazzo dice di essere in un lembo di deserto tra Siria e Iraq e dice che tutti i confini verranno spazzati via. Is, dunque, dichiara esplicitamente il suo obiettivo di essere uno stato con un’organizzazione, istituzioni, autorità ma soprattutto uno stato con mire espansionistiche per cui ogni musulmano deve lottare. Lo dice esplicitamente Abu Bakr Al-Baghdati, quando nel luglio del 2014 si autoproclama califfo. Dalla moschea di Raqqa dice che il califfato “è il sogno di ogni musulmano e il desiderio di ogni jihadista e che è loro dovere giurare fedeltà al califfo”. Poi si rivolge agli altri gruppi jihadisti aggiunge che “non esiste alcuna scusa religiosa per non sostenere questo stato”. Ogni frase è studiata per coinvolgere ogni fedele islamico, ma anche di minacciarlo in modo sottile intendendo che per tutti i musulmani, “con l’annuncio del califfato, è ormai loro dovere giurare fedeltà al califfo”.

Negli ultimi mesi è stato chiaro che il progetto di controllo ed espansione del territorio stava fallendo. Sotto la pressione militare, già lo scorso luglio tutto il territorio del presunto califfato era stato bombardato e riconquistato pezzo dopo pezzo. Proprio per questi, i dirigenti dell’Is, per far fronte alla situazione, avevano deciso di ridurre le province del califfato da 23 a due, al-Iraq e al-Sham, vale dire pezzi di Iraq e pezzi di Siria. La decisione, come accaduto fin dall’inizio della storia del califfato, viene comunicata ufficialmente sul settimanale on line dell’Is, al-Naba per darne una valenza politica e strategica. Sul numero 140 del settimanale, infatti, appare una infografica molto chiara in cui si vedono il nuovo califfato suddiviso i due macro-aree: i wilayat al-Iraq e al-Sham, appunto. L’obiettivo, in pieno stile comunicativo di Is, è ribaltare l’immagine della situazione e provare a nascondere i fallimenti sul campo. La scelta, dal punto di vista simbolico è il primo e forse inconsapevole, passo indietro di Is. Ritorna, praticamente, alla sua prima denominazione. Anche dal punto di vista del potere interno al califfato, la ricompattazione del territorio crea problemi di gestione. Da agosto 2018, infatti, vengono ridimensionati i quadri dirigenziali, ma si innescano una serie di lotte intestine.

Tutto ciò per Is è una sfida a ribaltare il piano di realtà. Esercizio che hanno praticato fin dal primo momento. In tutti i video dell’orrore girati, montati e diffusi dall’ufficio stampa del califfatto, il concetto su cui si punta è “il nemico siete voi, voi ci attaccate, noi ci difendiamo”. Succede per la prima volta nel video di Jonh Cantlie, il reporter inglese rapito in Siria nel novembre 2012 che diventa strumento umano della comunicazione di Isis. Vediamo Cantlie per la prima volta il 18 settembre 2014 in un video dal titolo “Lend me your ears” cioè “statemi a sentire”, in cui appare come prigioniero davanti a due telecamere, sapientemente illuminato, appoggiato a un tavolo, pronto a dare il suo messaggio. A un minuto dall’inizio del filmato dice “Sì, sono un prigioniero, questo è vero, ma il mio governo mi ha abbandonato (…)” e continua “voglio usare questa opportunità per raccontare alcuni fatti”. Il prigioniero Cantlie diventa lo strumento della controinformazione del califfato. E infatti, compare in altri video in cui, in abiti civili, mostra la vita in Iraq sotto il controllo del califfato: i forni che producono pane, ragazzi in motorino, donne che fanno la spesa… Poi di lui non si ha più traccia.

La stessa tecnica mediatica viene usata nel brutale video in cui il protagonista è il pilota giordano bruciato vivo in una gabbia. L’inizio sembra un trailer di un film d’azione in cui si fa intuire la trama: si vede il re Abdallah di Giordania che parla in inglese con gli alleati americani e che manda uomini armati verso altri fratelli musulmani. La risposta di Is sono i canti della battaglia che si alternano alle immagini dei luoghi dello scontro. Prima di tutto, viene ricostruita in 3D la sagoma del caccia in volo verso la Siria, poi appaiono le fiamme delle bombe, i pezzi dell’aereo, i villaggi distrutti, i bambini mutilati, bruciati. Il tutto con musica sincopata, effetti sonori, un mix perfetto per diffondere nel mondo un’immagine chiara: le vittime siamo noi e il pilota giordano è responsabile di crimini atroci contro altri musulmani. Perciò la sua morte è un atto di giustizia. Simbolicamente il suo corpo viene sepolto sotto un cumulo di rocce, cioè le macerie che lui stesso ha contribuito a creare.

Questi sono solo due esempi di come, nel corso di questi anni, la comunicazione di Is è stata efficace e pensata per colpire un target o un obiettivo specifico. Ed è così anche in questo caso. Tornando al presente, infatti, con sapiente manipolazione dell’informazione attraverso i media, le sconfitte che la coalizione a guida americana stava infliggendo al califfato sono state riproposte come mosse di arretramento del fronte per ricompattare e attaccare. Viene praticamente diffusa la notizia che l’Is sta combattendo una guerra ibrida, in cui non si perde e non si vince ma ci sono attacchi e colpi in entrambi gli schieramenti. Ma i vertici dell’organizzazione terroristica in realtà sapevano bene che stavano perdendo e così hanno lanciato un messaggio preventivo ai suoi adepti. Già ad agosto, infatti, in un video intitolato la “gloriosa vittoria” (ancora mistificazione della realtà), Al-Baghdadi chiede un atto di fedeltà, chiede di non abbandonare il progetto, di restare fedeli al territorio. Un messaggio per un verso rivolto ai suoi combattenti sul campo, invitati a resistere proprio come hanno fatto gli ultimi irriducibili asserragliati dentro Baghuz, e per un altro verso rivolto invece a tutti gli affiliati nel mondo, ri-infervorati per la causa. Ed è questo il punto nodale del problema legato alla sconfitta di Is.

È sconfitto? In realtà, come hanno testimoniato anche molti giornalisti che in questi mesi sono stati in Siria, molti jihadisti sono consapevoli che questo è un momento di arretramento (guerra ibrida, appunto), che è il tempo di riorganizzarsi e di cambiare strategia. Di certo il disegno di un califfato islamico non è svanito. In questi anni siamo stati abituati a focalizzarci sui “grandi eventi” studiati dagli strateghi della comunicazione di Is e diffusi ad arte. Abbiamo capito che l’Is, come una gigantesca multinazionale, ha presentato il proprio prodotto, ha analizzato il proprio target e ha prodotto contenuti diversi in grado di interessarlo, irretirlo, convincerlo, arruolarlo: i video di John Cantlie, gli sgozzamenti dei prigionieri commessi da un inglese, e poi ancora, i videogiochi, i messaggi su twitter, le colonne sonore da scaricare… Un disegno perfetto in cui anche i media sono stati usati come pedine. Perché se è vero che i “prodotti” arrivavano al destinatario direttamente, il tam tam della stampa ha contribuito a veicolare i messaggi e ad accrescere il mito del califfato. Questo gran fermento comunicativo si è attenuato molto nell’ultimo periodo e non è una cosa da sottovalutare.

Non è silenzio, è riorganizzazione. Paradossalmente ora l’Is torna alle origini, alla prima fase della sua strategia, quando le comunicazioni erano sottotraccia, non roboanti per far parlare di sé. Al contrario, ora è tempo di far dimenticare le sconfitte di battaglia e dare il segnale che l’Is è vivo. Come? Lanciando un nuovo appello a colpire l’Occidente con attentati terroristici come ne sono avvenuti tanti negli ultimi anni, l’ultimo a Strasburgo, in cui è morto il giornalista italiano Antonio Megalizzi. Gli obiettivi dei capi nascosti del califfato potrebbero essere reclutare nuovi soldati per ricostituire l’esercito, aizzare altri lupi solitari, rinvigorire lo spirito dei fereign fighters tornati a casa.

Attaccare l’occidente è un messaggio al mondo per dire “non ci avete scalfito, siamo ancora qui” ma è anche uno punto di ripartenza per il califfato e un’occasione di riunire la sua “umma”, la comunità. E l’Is non dimentica mai uno dei suoi capisaldi, fin dalla prima ora, ancor più importante in questo momento: rivendicare qualunque situazione nel mondo in cui si sospetta il terrorismo. Qualche giorno fa il gruppo dello stato islamico della provincia del Caucaso ha detto di essere responsabile dell’uccisione di due cristiani avvenuta con una bomba all’interno di un appartamento di Kolomna, città russa a 100 km a sud est di Mosca. Sempre qualche giorno fa sui canali social è stato individiato dai servizi segreti il messaggio di un anonimo affiliato all’Is che si è rivolto ai lupi solitari e gli ha suggerito come acquistate armi e munizioni sul dark web senza lasciare tracce. I servizi segreti sono in allerta e monitorano ogni messaggio sospetto.

×

Iscriviti alla newsletter