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Senza clausole di enforcement è meglio non fare accordi con la Cina

coronavirus, Li Wenliang

La Cina continua ad essere al centro dell’attenzione sia degli ambienti economici sia di quelli economici italiani. Venerdì scorso 12 Aprile, il Centro Europa Ricerche (Cer) hanno presentato al Cnel uno studio sulle opportunità offerte dalla Via della Seta. Oggi 17 aprile, ad un mese dalla visita in Italia del presidente cinese Xi Jinping, l’Istituto Affari Internazionali (Iai) e lo studio legale Nctm, in collaborazione con il Chinese Academy of Social Sciences (Cass), organizzano un dibattito per discutere del futuro delle relazioni Europa-Cina. Esperti italiani e ricercatori Cass, il più autorevole istituto di ricerca di Pechino, si confronteranno su multilateralismo e global governance.

Tutti temi di grande interesse. Pochi, però, sembrano occuparsi di quello che, a mio avviso, è da sempre (vorrei dire dai tempi di Marco Polo e di Matteo Ricci) un problema centrale dei rapporti con la Cina e con i cinesi: quello dell’enforcement degli accordi. Ed è lo scoglio su cui, ancora in questi giorni, si stanno scontrando, a Washington, le delegazioni degli Usa e di Pechino per portare a buon fine un accordo commerciale sostanzialmente già redatto e quasi siglato. Gli americani che hanno lunga esperienza di trattative con la Cina (dal tempo del primo viaggio di Nixon e Kissinger a Pechino e di quella allora chiamata la diplomazia del ping pong), stanno cercando di trovare una formula semi-automatica per fare sì che se la controparte non osserva gli impegni, scattino automaticamente sanzioni.

A Washington brucia ancora di essere stati uno dei maggiori sponsor di Pechino a Doha nel 2001 quando la Cina venne ammessa all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) in base alla promessa di diventare entro una decina d’anni, un’economia di mercato. Non solo l’impegno non è stato mantenuto ma da allora ad oggi – circa quattro lustri – la  Cina è più statalista di prima e l’ingresso nell’Onc è stato l’apriscatole per carpire grandi e piccoli segreti su processi di produzione e prodotti.

C’è molta attenzione e preoccupazione su proprietà intellettuale in materia di alta tecnologia. Pochi credo sanno che cinesi andati a studiare all’Università per Stranieri di Perugia (principalmente per apprendere l’italiano e svolgere attività turistiche e commerciali con il nostro Paese) impossessatisi delle tecniche di produzione delle ceramiche umbre, hanno creato in Cina (e con il supporto delle autorità) un’intera città chiamata Deruta e che produce vasi ed altri prodotti etichettati ‘made in Deruta’ che stanno invadendo il mercato mondiale, in particolare quello americano.

Non è che la Cina e i cinesi siano intrinsecamente sleali (peraltro che io sappia in mandarino non esiste un ideogramma che voglia dire lealtà). Si considerano una popolazione superiore a quelle del resto del mondo. Ciò li ha portati a fare grandi errori. Ad esempio verso la metà del Quattrocento, per il timore che la tecnologia cinese fosse carpita dagli europei, un loro Imperatore vietò i commerci con il resto del mondo e fece bruciare la flotta di caravelle (ciascuna delle quali era pari a circa dieci volte quelle che portarono Colombo in America). Ciò fece la fortuna dei coreani (che diventarono grandi navigatori e commercianti) e costrinse la Cina ad isolamento ed impoverimento. Ora è il momento della rivincita per i cinesi, i quali considerano gli occidentali a loro inferiori. E meritevoli di essere trattati come tali.

Il Segretario al Tesoro Usa dice che ogni patto con i cinesi deve avere clausole di enforcement. Ha ragione. Quali clausole sono state inserite negli accordi firmati un mese fa?

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