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Bye bye Cina. Perché GoPro, Danfoss e Hasbro dicono addio al Celeste Impero

coronavirus, Li Wenliang

Nel film “Il Federale” di Luciano Salce (1961), nel maggio 1944, quando gli americani stanno per entrare a Roma, ad un povero diavolo (interpretato da Ugo Tognazzi) viene promessa la promozione a Federale se porta un antifascista dall’Abruzzo alla capitale. Sulla via di Roma, ne succedono di tutti colori ed, una volta arrivato, il poveraccio finirebbe fucilato dai partigiani se il suo prigioniero non intervenisse a suo favore.

Questa storiella faceta potrebbe sembrare una parabola dell’innamoramento, e del fidanzamento fastoso tra Italia e Cina. Di nozze non si parla, tanto vaghi sono il Memorandum of Understanding (MoU) e la trentina di accordi firmati solennemente due settimane fa. Non sarà che noi cerchiamo di andare in Cina, mentre altri, quando non ottengono commesse puntuali (come quella della Francia per l’acquisto di 300 aerei da parte di Pechino) stanno cominciando a levare le tende e a navigare verso altri lidi?

Lo ha riconosciuto lo stesso Song Zhiping, presidente e segretario del Partito Comunista del China del National building materials group, un gigante (statale) del settore delle costruzioni. Eravamo diventati – ha detto ad una recente assemblea del gruppo – la fabbrica del mondo, ma la situazione sta cambiando perché aziende straniere (oltre a quelle cinesi) stanno andando al di fuori del Paese. Le aziende cinesi – lo sappiamo – vanno altrove con mire espansionistiche. Quelle straniere lo fanno perché in quello che fu il Celeste Impero è diventato difficile lavorare.

Veniamo ai fatti. La GoPro, una delle maggiori imprese mondiali delle telecamere e la Universal Electronics, un leader nel campo delle televisioni, ha deciso di chiudere i loro impianti in Cina e di trasferire le loro operazioni in Messico. Il colosso danese, Danfoss, che produce impianti di idraulica e di riscaldamento, liquida le proprie operazioni in Cina e le trasferisce addirittura negli Stati Uniti dopo avere fatto calcoli accurati della convenienza dove è meno costoso e più efficiente produrre. La Hasbro, una delle maggiori imprese manifatturiere di giocattoli, dice anche essa addio alla Cina e trasloca alla volta degli Usa, del Messico, del Vietnam e dell’India.

Aten International (produttore di computer) lascia la Cina per tornare nella natia Taiwan. E non si tratta che dei casi più noti e più clamorosi. Uno studio dell’Union de Banques Suisses conclude che un terzo delle imprese straniere in Cina ha spostato fuori del Paese almeno parte delle loro linee produttive nel 2017-18 ed un altro terzo programma di farlo quest’anno.

Cosa spinge all’esodo? Negli ultimi vent’anni, Pechino ha attratto numerose imprese manifatturiere del resto del mondo, grazie alla messa in atto di una enorme moderna rete infrastrutturale, a bassi costi del lavoro, all’assenza o quasi di sindacati (almeno all’interno delle aziende) e della possibilità di affidare parte del processo produttivo a sub-appaltanti a costi ancora più bassi. Secondo l’Unido (l’agenzia delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale), nel 2000 l’8% della produzione manifatturiera mondiale era cinese; nel 2018 tale quota era giunta al 25% – più del contributo totale complessivo di Usa, Germania e Corea del Sud.

Tuttavia, non solo l’aumento della produzione è stato accompagnato – come era da aspettarsi – da una lievitazione dei salari e di altri costi. Ma la politica si è fatta sempre più impicciona non solo per carpire i segreti dei processi di produzione ma anche per indicare, con sempre maggiore forza, quali sub-appaltanti e fornitori utilizzare e quali no. Su tutto ciò, poi, si staglia la minaccia di guerre e guerriglie commerciali con il rischio di dazi nei mercati di sbocco.

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