Abbiamo capito. La traduzione italiana di flat tax è “meno imposte”. Come traduzione non è il massimo, ma la sostanza è questa. Quel che tutti ormai hanno capito è che per flat tax non si intende – come si dovrebbe – una profonda riforma del sistema fiscale intesa a renderlo più semplice, più trasparente e meno oneroso e – particolare non trascurabile – a contenere l’invadenza dello Stato. No, si intende – molto più banalmente – una riduzione selettiva del prelievo fiscale ottenuta attraverso progressive erosioni dell’imposta personale e finanziata rigorosamente a debito.
Nel segno della più ferrea continuità rispetto al passato e di una crescente presenza dello Stato nell’economia e nella nostra vita di tutti i giorni (perché un debito pubblico superiore al 130% del prodotto e in crescita questo è, e non altro). Una riduzione della pressione fiscale è sempre benvenuta (anche se – è bene ribadirlo – finanziata in disavanzo non serve quasi a nulla come i precedenti governi hanno imparato). Ma è bene dirselo chiaramente, non è di questo che l’economia italiana ha bisogno per invertire le deludenti tendenze degli ultimi anni. E, per favore, non prendiamoci in giro con la favoletta della necessità di sostenere l’economia in un momento congiunturalmente difficile. A parte il fatto che in un paese ad alto debito sarebbe bene non fermarsi al primo capitolo di un testo di macroeconomia per capire come stanno le cose, sostenere che la cosiddetta “fase 2” della flat tax avrebbe una valenza puramente congiunturale, equivale a dire che quando poi il momento difficile sarà passato la pressione fiscale potrebbe tornare a salire. Ed è questo che si ha in mente?
Si dirà che no, così non sarà. Che si provvederà finalmente ad intervenire per disboscare la giungla delle detrazioni e deduzioni e dei tanti trattamenti di favore oggi presenti nel sistema. Che si metterà finalmente mano ad una seria spending review e che così sarà possibile reperire le risorse per la mitica “fase 2” della flat tax. Ora, sulla spending review ci sia concesso di non sprecare una sola parola. La si continua a confondere con i leggendari “tagli agli sprechi”. Piccoli interventi al margine di razionalizzazione (se tutto va bene!) dell’esistente. Laddove la spending review – quella vera – è una revisione profonda dei programmi di spesa. Serve non solo a rispondere alla domanda “può lo Stato fare meglio ciò che già fa?” ma soprattutto a domandarsi se ciò che lo Stato fa rientra fra i suoi compiti essenziali o meno.
Una domanda che evidentemente non può sfiorare la mente di un governo che ha più volte chiarito che non intende “togliere nulla a nessuno”. Rimangono allora le spese fiscali per le quali siamo pronti a scommettere che non si andrà oltre – se mai lo si farà – una simbolica sforbiciata. L’idea che i tanti trattamenti di favore oggi esistenti siano una modalità di “personalizzazione” dell’imposta (come è stato autorevolmente suggerito) è – chiedo scusa – umoristica. L’essenza di un sistema fiscale bene ordinato è la sua trasparenza e la sua comprensibilità perché in esso risiede il rapporto fra Stato e cittadino. I tanti trattamenti di favore “personalizzano” non l’imposta ma quest’ultimo rapporto, trasformandolo in un rapporto di clientela.
Che un ex responsabile dell’Agenzia delle Entrate non colga il punto la dice lunga su come lo Stato (sarebbe meglio dire, il sovrano) intenda il proprio rapporto con il contribuente (sarebbe meglio dire, il suddito). La sola ultima legge di bilancio introduce poco meno di venti nuovi trattamenti di favore. Tanti quanti sono stati, più o meno, introdotti dal governo precedente. Tanti quanti furono introdotti, annualmente, dai governi dell’ultimo lustro. Per un totale ormai prossimo ai 550 trattamenti di favore. Per invertire la rotta non basta un Documento di economia e finanza. Serve una diversa cultura politica. Che non c’è.