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I ragazzi di fede musulmana più integrati in Italia hanno la doppia cittadinanza. Parla Ciocca

Sono circa due milioni e mezzo i musulmani in Italia di cui circa 1 milione di cittadinanza italiana. Il libro “L’Islam italiano. Un’indagine tra religione, identità e islamofobia”, del sociologo Fabrizio Ciocca e pubblicato da Meltemi Editore, cerca di fare luce su come questa minoranza religiosa viva e quali problematiche affronti nel contesto italiano. L’autore si era già interessato all’argomento in un’opera precedente, “Musulmani in Italia. Impatti urbani e sociali delle comunità islamiche a Roma” del 2018. Alla base c’è la consapevolezza che le comunità islamiche tendono a caratterizzarsi a seconda del Paese in cui vivono, ed il testo cerca di capire, dati alla mano, come i musulmani in Italia riescano a partecipare alla vita del Paese, pur non avendo ancora un riconoscimento pubblico formale.

Di tutto questo ne abbiamo parlato con l’autore, il sociologo Fabrizio Ciocca.

Stando ai dati del suo libri qual è lo stato di salute dell’Islam in Italia?

Ci sono elementi positivi e anche elementi di difficoltà. Da una parte è un fenomeno stabile e strutturato, con una popolazione musulmana inserita, che lavora e contribuisce alla ricchezza nazionale, di cui il 60% si trova al nord nella parte più ricca del Paese. Dall’altra abbiamo ancora una serie di difficoltà legate al fatto che ad oggi non c’è un’intesa ufficiale con lo Stato italiano e questo, a pioggia, incide su tutta una serie di elementi, primo fra tutti la concessione di terreni per l’edificazione di luoghi di culto.

Perché la comunità islamica non è riuscita a raggiungere un’intesa con lo Stato italiano?

L’articolo 8 della nostra Costituzione stabilisce che, per le religioni diverse da quella cattolica, i rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze. Tuttavia nell’Islam non c’è una Chiesa come nel mondo cattolico, vi sono però una serie di associazioni nate dall’azione dei primi immigrati che sono arrivati in Italia, e già dai primi anni ’90 si è palesata l’esigenza di stipulare un accordo con la confessione islamica. Le ragioni per le quali ancora non si è arrivati ad un’intesa sono diverse. A volte per una troppa frammentarietà all’interno dell’associazionismo islamico, a volte per l’instabilità governativa che non è riuscita a dare continuità ai percorsi “istituzionali” intrapresi con le stesse organizzazioni.

Una delle ragioni potrebbe essere la stessa natura acefala dell’Islam?

Come detto, nell’Islam non c’è una Chiesa gerarchica che rappresenti tutto il mondo musulmano (a sua volta diviso in sunniti e sciiti) né un’unica comunità che rappresenti i 2 milioni e mezzo di musulmani in Italia, che si dividono, a loro volta, in 40 nazioni con differenze etniche, linguistiche e culturali.
Quali potrebbero essere le strategie per superare questo impasse?

O un superamento dell’idea stessa della “intesa unica”, e quindi una serie di intese con le singole associazioni/organizzazioni (come già fatto per altre confessioni religiose), oppure accordi locali che intanto permettano alle comunità islamiche di superare le diverse problematiche sul territorio con le amministrazioni comunali, in attesa che si arrivi all’approvazione di un accordo quadro a livello nazionale.

Qual è l’identikit della persona integrata che emerge leggendo il suo libro?

Sulla base di una ricerca che ho fatto su un campione di oltre 300 soggetti, emerge che, tendenzialmente, le persone che si sentono più accettate dalla società in quanto musulmane sono coloro che hanno la cittadinanza italiana; viceversa, tra coloro che ritengono di sentirsi esclusi a causa delle loro fede islamica, la maggior parte ha ancora la cittadinanza straniera. Sembra quindi che il possedere o meno la cittadinanza del paese in cui si vive incide sul senso di appartenenza alla comunità.

Nel sentimento di appartenenza è più rilevante il possesso della cittadinanza o una condizione socioeconomica svantaggiata?

Consideri che la maggior parte della popolazione musulmana in Italia lavora e gli alti tassi di disoccupazione che riscontriamo in alcuni aree in Europa a maggior concentrazione musulmana in Italia non trovano riscontro. Oltre al fatto siamo in presenza di una popolazione molto giovane: sono infatti circa 400 mila gli studenti. Nel caso italiano quindi, più che l’eventuale aspetto socio-economico disagiato o di marginalizzazione, sembra che l’essere considerato cittadino italiano incida di più nel riconoscersi parte del paese in cui si vive e nella comunità.

Non crede che potrebbero esserci dei rischi nell’allargamento delle maglie della concessione della cittadinanza, magari legati a recrudescenze di fanatismo?

Io penso che ormai in Italia abbiamo una popolazione musulmana presente da oltre trent’anni, stabile e matura. Sono 300 mila i musulmani che hanno preso la cittadinanza italiana negli ultimi cinque anni eppure, nonostante un numero così “grande”, non sono stati registrati particolari rischi a parte qualche sporadico caso isolato. In ogni modo, a mio avviso, dovessero esserci episodi di fanatismo, questi verrebbero trattati come vengono trattati i cittadini italiani che si pongono al di fuori della legge.

È più semplice integrarsi nel nord o nel sud d’Italia?

Questa è una domanda molto interessante ma per la quale non abbiamo dati “concreti” con cui rispondere. Tuttavia si consideri che l’integrazione e/o inserimento nella società passa anche e soprattutto attraverso le azioni che vengono messe in campo dalle istituzioni locali, attraverso dei percorsi educativi e culturali.  Laddove questi mancano, a prescindere che si abiti al Nord o al Sud, l’integrazione diventa più ardua.  In realtà però quando si parla di “integrazione” della popolazione musulmana, bisogna tenere conto di diversi elementi quali la nazionalità, il tipo di progetto migratorio del soggetto, la posizione socio-economica che occupa, etc.  Fatte queste considerazioni quindi, ritengo che la maggior parte dei musulmani sia ben inserita nella società italiana, fa parte del tessuto socio-produttivo e negli ultimi anni esprime anche una sua specificità culturale.  Poi ovviamente ci sono delle persone, magari con bassi livelli di istruzione, o che vivono in condizioni di disagio economico o sociale, che rischiano di vivere lontano dalla Società, e che a loro volta potrebbero “auto-ghettizzarsi”. Ma nulla a che vedere con le banlieue parigine in cui vivono masse di figli di terze generazioni, con tassi di disoccupazioni altissimi, spesso dimenticati dallo Stato.

Quindi lei esclude che ci siano rischi di questo tipo per l’Italia?

Ad oggi non ci sono degli indicatori che ci possono far pensare a derive di questo tipo.

E invece quali sono i rischi di diffusione dell’islamofobia nel nostro paese e nel nostro continente?

Diverse ricerche dimostrano che in Italia vi è un certo livello di islamofobia  e che raggiunge il  suo “picco” massimo soprattutto in occasione di attentati in  Europa di matrice jihadista, anche  se ancora non si sono raggiunti i livelli che si stanno verificando negli ultimi anni in Gran Bretagna o Francia, tuttavia vi sono sempre più casi, che seppur isolati, andrebbero monitorati (da insulti verbali a casi di aggressioni fisiche,  tra cui diversi episodi a cui ad alcune ragazze hanno strappato il velo di dosso). Vi può essere un’islamofobia che potremmo definire come un semplice sentimento di fastidio o insofferenza nell’avere nella quotidianità a che fare con persone di religione islamica, oppure vere e proprio azioni criminali contro persone di religione islamica. Dai dati della mia ricerca emerge che spesso, questi episodi discriminatori si verificano soprattutto in ambito scolastico, ed è un fenomeno che bisognerebbe cominciare a monitorare con particolare attenzione.

Secondo lei perché un ragazzo, magari di seconda generazione, dovrebbe preferire la cittadinanza italiana a quella della sua famiglia d’origine?

Non si tratta di preferire l’Italia al paese dei propri genitori, ma semplicemente quello di poter godere di un diritto previsto dalla Costituzione. Il punto oggi invece è che capire che la Società sta cambiando, che vi sono circa un milione di ragazzi/e di fatto italiani (nati o cresciuti qui), ma non lo sono ancora per la legge. Bisogna prendere atto di nuovo panorama sociale e gestirlo con altri strumenti normativi. Aggiungo un’ultima cosa. Dai dati che ho riportato nel mio libro, la tipologia prevalente del campione sembra essere quella della “doppia identità”, ossia il sentire un legame forte sia con l’Italia che con il paese di origine. Questi ragazzi sono quelli che riescono meglio a gestire l’ambivalenza della cultura occidentale e la cultura orientale e che in qualsiasi momento riescono a confrontarsi sia con gli italiani che con i cittadini dei loro paesi d’origine.

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