Skip to main content

Lite tra Trenta e Salvini sulla Libia? Intervenga il premier Conte. Parla il generale Tricarico

Tempest

Tocca a Giuseppe Conte dare chiarezza sull’eventuale chiusura dei porti, con un’azione di coordinamento d’altronde richiesta al presidente del Consiglio per ogni attività di governo che coinvolga più dicasteri. Parola del generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa e già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che abbiamo raggiunto per commentare la polemica che da un paio di giorni impazza tra le due forze di maggioranza sulla gestione dei flussi di migranti che potrebbero generarsi con l’acutizzarsi per la crisi libica. Contrapposti l’Interno di Matteo Salvini e la Difesa di Elisabetta Trenta, con pure l’intervento critico del sottosegretario leghista Raffaele Volpi nei confronti della titolare del dicastero (qui una ricostruzione dei vari botta e risposta).

Generale, tra Lega e M5S è scontro totale su Libia, migranti ed eventuale chiusura dei porti. Ma come stanno le cose?

Non posso che guardare da un punto di vista istituzionale, e non politico, le questioni oggi dibattute sulle prime pagine dei giornali. Tecnicamente, la chiusura dei porti è una misura ovviamente possibile, poiché afferisce alla sovranità di ogni Stato. Eppure, debbono ricorrere determinate condizioni, tutte da verificarsi. Si tratta di emergenze per l’ordine pubblico, di condizioni ambientali, sanitarie e così via. Su questo, l’autorità che conserva la potestà è il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, che emette un decreto dopo aver sentito gli altri ministri competenti. In questo caso specifico dunque, una decisione dovrebbe essere concertata tra il Mit e l’Interno. Almeno questo è quello che dovrebbe essere.

Pensa sia possibile una linea comune?

Dovrebbe esserlo. Come qualsiasi altra questione che non abbia competenza esclusiva di un unico ministero (e quindi quasi tutte le attività di governo), anche la chiusura dei porti dovrebbe essere oggetto di coordinamento, il quale non può che arrivare dal presidente del Consiglio. Lo dice espressamente la legge: se la competenza è plurima, coordina il capo dell’esecutivo. Ciò significa che Giuseppe Conte deve prendersi sulle spalle anche questa croce e portarla.

Eppure, una certa irritazione è trapelata anche dai vertici militari, “scocciati” per l’invasione di campo della direttiva con cui il Viminale di fatto impedisce a tutte le autorità militari e di Polizia di far arrivare in Italia navi con i migranti a bordo.

Per inclinazione caratteriale, cerco di mantenere il recinto che più mi è proprio, sebbene da pensionato. Oltre a questa scelta, non ho ancora avuto modo di leggere la direttiva. Dunque, mi guardo bene dall’entrare nel merito, ma ci tengo a sottolineare un punto: sono convinto che i libici non siano un popolo che migra. Ogni pericolo avvertito dalla popolazione comporta in primis la fuga presso altre località libiche, condizione oggi preponderante visto che le conflittualità e le confrontazioni sono ben localizzate e non tali da giustificare una fuga dal Paese. In più, se veramente ci fosse bisogno di fuggire, il libico sarebbe portato a muoversi verso Tunisia ed Egitto.

Nessun maxi flusso verso l’Italia dunque?

Ci potrebbero essere movimenti verso l’Italia, ma ritengo che sarebbero sporadici e di certo lontani da numeri a quattro cifre. Su questo c’è un riscontro ben preciso: quando, subito dopo la rivoluzione, il nuovo governo varò una legge che perseguiva chiunque avesse avuto rapporti con Gheddafi e il suo regime, fuggirono in molti con la paura di ritorsioni ed epurazioni. La maggior parte si spostarono però in Tunisia ed Egitto. La Banca centrale libica, costola della National oil company, continuò addirittura a pagare gli stipendi dei propri dipendenti anche se non andavano a lavorare. Non avevano ragioni per spostarsi verso l’Italia.

Ma è stato lo stesso Serraj a parlare di 800mila libici pronti a partire come migranti. Ha toccato il tasto giusto per attivare la politica italiana?

La forzatura è evidente. Anche Gheddafi minacciava di aprire le frontiere. Non credo proprio che Serraj pensi davvero a quella cifra.

Come si può evitare che l’escalation raggiunga picchi difficilmente controllabili? Può intervenire l’Europa?

Se l’Europa non è mai esistita come entità unica, soprattutto ora, c’è da sperare ben poco oltre a vacui messaggi e raccomandazioni. Ci sono tra l’altro almeno due Stati membri che non sarebbero d’accordo su un’unica visione. L’Onu ha la forza che conosciamo. Diversi suoi alti rappresentanti si sono alternati in Libia, ma i risultati sono quelli che vediamo in questi giorni. Semmai, visto che gli sponsor statuali dei rispettivi schieramenti sono ben noti, servirebbe una concertazione di scopo e che qualcuno si prenda la briga di riunire intorno al tavolo tutti gli attori coinvolti, non prima di aver usato le cancellerie a disposizione per mettere a punto una visione da imporre. Solo gli sponsor possono infatti imporre ai contendenti una riduzione delle conflittualità, facendo semplicemente venir meno sostegno, rifornimenti e risorse.

Anche l’Egitto è una pedina importante nella partita libica. Come giudica in tal senso il via libera, arrivato ieri dalla commissione Esteri della Camera, al testo base per l’istituzione di una commissione d’inchiesta su Giulio Regeni?

Basta: il caso Regeni non può decidere la politica estera del Paese, pure con tutto il rispetto, il dolore e l’orrore per quello che è successo. La politica estera italiana deve seguire gli interessi dello Stato. Quest’ultimo è ovviamente chiamato a fare chiarezza, ma anche a seguire gli interessi di tutti gli altri cittadini. È ora di chiudere la questione. La giustizia deve fare il suo corso e le forze in campo devono continuare ad adoperarsi per la verità. Ciò deve però essere un canale parallelo e non un condizionamento o (peggio) una tenuta in ostaggio della politica estera italiana.


×

Iscriviti alla newsletter