I negoziati commerciali Usa-Cina non sono andati a buon fine: alla mezzanotte ed un minuto della notte tra venerdì 10 e sabato 11 maggio, gli Stati Uniti hanno posto dazi del 25% su gran parte delle importazioni della Cina e Pechino ha risposto minacciando misure di ritorsione. Nonostante tutto, però, la trattativa sta riprendendo (pare) nella capitale nel nuovo Celeste Impero.
Al termine di questa partita (ancora non sono chiari i contorni della prossima), occorre chiedersi chi ha vinto e chi ha perso. Ipotizziamo che si tratti di una partita a carte: un tresette (col morto) dato i principali giocatori sono tre (Usa, Cina, Ue) non quattro. Il resto del mondo resta nello sfondo, come vi è rimasto nel corso della tornata. Pagherà comunque il conto in termini di incertezza sul futuro non solo del commercio ma anche degli investimenti internazionali, i quali, senza sapere quale è il regime tariffario a cui saranno soggetti i loro prodotti, non sapranno dove andare. Ciò provocherà un rallentamento della crescita dell’eximport mondiale di cui faranno le spese i Paesi esportatori più fragili (come l’Italia).
Ma torniamo ai tre contendenti al tavolo da gioco: Usa, Cina ed Ue. Gli Usa hanno fatto saltare il branco e terminato il 10 maggio una partita a cui erano stati concessi diversi tempi supplementari: sarebbe dovuta terminare entro il termini perentorio del 30 marzo. Lo hanno fatto nonostante che, almeno nel breve termine, Washington rischi di essere il giocatore che perde di più. Da un lato, i consumatori di prodotti finiti di bassa fascia (giocattoli, abbigliamento) dovranno pagarli di più se non troveranno sostituti manufatti negli Usa o altrove. Da un altro, le aziende (numerose in certe categorie dell’elettronica) che assemblano per il mercato americano componenti manufatte in Cina avranno più alti costi di produzione. Da un terzo, la banca centrale cinese è nelle sue riserve 1.13 trilioni di dollari Usa e, se vuole, può mettere in serie difficoltà gli americani, riversandone parte sul mercato finanziario.
Perde, nel più lungo termine, anche Pechino. Come più volte sottolineato su questa testata, il principale nodo più che il commercio è il fatto che la Cina non ottemperato alla promessa, fatta quando è stata ammessa, nel lontano 2001, all’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) di trasformarsi in una vera economia di mercato. È a tale trasformazione a cui, per il momento, Pechino si oppone in modo veemente. La bozza di accordo bilaterale prevedeva misure che avrebbero comportato mettere su un piede di parità con gli altri operatori le gigantesche imprese pubbliche cinesi e la revisione della normativa che impone alle aziende straniere che vogliono operare in Cina di dischiudere alle autorità cinesi le loro innovazioni di processo e prodotto D’altro canto, per Pechino scardinare le imprese statali vuole dire scardinare gli assetti di potere: La Via della Seta è stata concepita come mezzo per mantenere in vita il sistema esistente. Sino a quanto regge.
Gli Usa, però, hanno un asso nella manica. Uno studio a limitata circolazione degli uffici del Rappresentante speciale della Casa Bianca, firmato da Alexander Hamilton e Nabil Abbyad, (Executive Briefing on Trade USITC 2018) documenta la crescita del debito interno della Cina dovuto in gran misura all’uso inefficiente delle risorse da parte delle imprese statali e come tale fardello rischia di pesare pesantemente sullo sviluppo del Paese nei prossimi anni. Prima o poi, anche a causa di conflitti interni tra la gerarchie del Partito comunista cinese, arriverà il momento del rendiconto.
L’Ue potrebbe essere il vincitore, soprattutto se gioca unita e se sa inserirsi astutamente nelle modifiche, ormai urgenti, delle imprese di Stato cinesi. Lo hanno ben compreso Francia e Germania che hanno concluso accordi di vendita (in contanti) per aeri e macchine utensili. La Grecia, primo Stato a mettersi sulla Via della Seta quando era in brache di tela, rimpiange già la (s)vendita del Porto del Pireo. E l’Italia? E’ stata ammaliata nel fascino orientale. Speriamo bene!