Su questa testata abbiamo più volte analizzato le tensioni economico-commerciali tra Stati Uniti e Cina, tensioni che coinvolgono anche l’Europa e, in particolare, l’Italia. Dopo gli ultimi episodi –relativi ai dazi doganali e alle licenze per il colosso delle comunicazioni Huawei, occorre chiedersi se il mondo è entrato in una nuova fase di Guerra fredda simile a quella che lo ha contraddistinto dalla fine della Seconda guerra mondiale all’inizio degli anni Ottanta, quando l’Urss e gli Stati europei a lei associati cominciarono a sfaldarsi. All’argomento l’ultimo numero del settimanale The Economist ha dedicato un interessante dossier di numerose pagine in cui, dopo avere documentato che “il commercio è stato per anni l’ancora dei rapporti tra Cina ed America ma non è più così”, conclude che “ce ne è abbastanza perché il mondo sia preoccupato”. Nell’ultima settimana, il New York Times ha pubblicato una serie di editoriali e inchieste in cui si sostiene una tesi analoga e, abbastanza chiaramente, si invita l’Europa a schierarsi.
Ci sono, in effetti, tutti gli ingredienti per una Guerra fredda simile a quella del non lontano passato: competizione sfrenata in materia tecnologica, confronto commerciale anche a base di tariffe e contingenti quantitativi, spie annidiate un po’ ovunque con metodi vecchi (le nuove Mata Hari alla ricerca di giovani leader politici) e nuovi (il controllo tecnologico delle conversazioni e della posta dei cittadini degli altri). Manca – e non è un aspetto secondario – il confronto armato: i carri armati Usa-Urss a Berlino nel 1961, i missili a Cuba l’anno seguente. C’è probabilmente all’interno della nuova edizione di quello che fu il Celeste Impero, una repressione, nei confronti di popolazioni che non gradiscono essere parte, una repressione ben più dura dei carri sovietici a Budapest, a Praga, a Danzica. Ma il muro dell’informazione è tale che non se ne sa nulla – neanche se si vive a Pechino.
È una Guerra fredda a base di piccoli e di grandi colpi, ma anche di ritirate più o meno strategiche (come quella relativa alla Hauwei) ed in cui manca, o quasi, la partnership atlantica. L’Europa, anzi, quasi non vi partecipa, si mostra lietissima di commerciare con la Cina ed, in certi casi (Italia), sfoggia veri e presunti fidanzamenti con quello che, a tutti gli effetti, appare come il principale avversario degli americani per la leadership quanto meno economica dell’ordine mondiale che si sta delineando. Eppure, ancora una volta, potrebbe essere l’Europa il perno per far sì che la nuova Guerra fredda non sfoci in un conflitto, pur non armato ma economico, ma diventi una nuova ‘coesistenza pacifica’ tra due sistemi politici ed economici che possa avere frutti utili per tutti.
Sessanta anni fa, il grande economista francese (oggi temo dimenticato), François Perroux lo teorizzò e propose in un’opera in tre volumi La coexistence pacifique che venne tradotta e studiata anche in Italia. Le condizioni sono molto differenti. Allora, c’era una forte alleanza atlantica tra Europa e Stati Uniti (non ancora incrinata dall’uscita della Francia dalle strutture militari della Nato); Germania, Gran Bretagna ed Italia si sentivano protette dall’ombrello americano, ed in effetti lo erano; i sei Stati fondatori di quella che allora si chiamava la Comunità Economica Europea credevano, a ragione od a torto, in percorso verso il federalismo. Oggi, anche i rapporti tra gli Stati Uniti e la Germania (per vari decenni strettissimi) si sono incrinati. La strada da fare è più complessa e più tortuosa. La posta in gioco, però, non è inferiore a quella di allora.