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La bandiera europea e le dodici stelle di Santa Caterina Labourè. Viaggio tra i simboli con il vaticanista Romeo

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Dalla Terra Santa alla mitologia greca e romana, dal cielo d’Alsazia dopo la seconda guerra mondiale passando per l’istituzione del Consiglio d’Europa, e giungendo all’elemento fondamentale di questo cammino, ovvero quello delle apparizioni di Rue de Bac avute da Santa Caterina Labourè, nel pieno centro di Parigi nella prima metà dell’ottocento. È l’incantevole percorso compiuto dal vaticanista Rai Enzo Romeo all’interno del suo ultimo libro, Salvare l’Europa. Il segreto delle dodici stelle (Ave, pp. 192, 12 euro), sulle orme del Vecchio Continente e fino alla genesi della bandiera sotto la quale oggi, anche nel bel mezzo delle elezioni più critiche verso l’Unione europea, ci si unisce. Un percorso fatto di sofferenza collettive, di uomini che al momento giusto hanno indicato vie d’uscita, di coincidenze che non per tutti sono tali, e di cui il giornalista ce ne parla in questa conversazione con Formiche.net.

Qual è il “segreto delle dodici stelle”?

Chi è addentro alle cose di Chiesa coglie subito certi simbolismi. Il cerchio delle dodici stelle su sfondo azzurro rimanda a una simbologia mariana, ovvero all’Immacolata Concezione, con questa iconografia della Madonna che ha intorno al suo capo una corona di dodici stelle. L’azzurro è quello del manto di Maria, secondo l’iconografia tradizionale, che ritorna spesso. Come ad esempio nelle maglie della nazionale italiana di calcio, che sono azzurre perché richiamano al colore dei Savoia, che a loro volta avevano scelto questo azzurro perché era il colore che rimandava alla Vergine Maria, di cui erano devoti. È tutto un percorso a ritroso in certe radici.

Cosa ha scoperto nel suo libro?

Io ho avuto la possibilità di accedere agli archivi del Consiglio d’Europa dove si conservano tutti i documenti che portarono all’adozione della bandiera europea. Nello scambio epistolare si vede come coloro che furono i protagonisti del cammino di adozione della bandiera europea, che oggi sventola su tutti i nostri palazzi, avevano in mente, perché erano credenti, questa idea. Che però non si voleva sventolare con intenti fondamentalisti o integralisti, assolutamente. Non si voleva marcare una supremazia da parte di un certo tipo di visione rispetto ad altre, ma era un’ispirazione che voleva essere offerta affinché tutti, di qualunque ceto o etnia, potessero ritrovarsi in questa casa comune e abitarla.

Ci racconta meglio ciò che emerge rispetto alla nascita della bandiera europea?

Nel 1949 nasce il Consiglio d’Europa e c’è la necessità di darsi un simbolo comune, iniziando il processo per l’adozione di una bandiera. Processo complicato, non si ha idea di come simbolizzare iconograficamente una bandiera che rappresenti molte nazionalità. Si indice un concorso di idee, arrivano oltre cento bozzetti, e gran parte contengono simboli religiosi, soprattutto la croce, già presente in moltissime bandiere europee. Poi però l’anno successivo entra nel consiglio la Turchia, che essendo a maggioranza musulmana non può accettare un simbolo che rimanda a un’idea confessionale dell’istituzione, e la croce viene scartata. Tra i bozzetti ce n’è uno con una stella per ogni capitale dei paesi che fanno parte del consiglio, ma che però non hanno una simmetria tra loro. È come una carta geografica senza contorni, non rimanda all’identità del continente, quindi l’idea viene scartata. Così piano piano si fa strada l’idea del cerchio con le stelle.

A quel punto che succede?

Succede che la persona che ebbe questa intuizione si chiamava Paul Lévy, capo ufficio stampa dell’allora Consiglio d’Europa, ebreo convertito al cattolicesimo con una forte devozione mariana. Lui era un forte credente, ma la sua idea di fede non doveva essere sbandierata. Il disegnatore che gli diede una mano portava al collo la “Medaglietta miracolosa”, quella che la Madonna, che nelle visioni di Parigi a Rue du Bac apparve a una giovane suora francese, Caterina Labourè, chiese di coniare. Oggi ci sono milioni di esemplari di questa medaglietta in tutto il mondo, in cui la Madonna ha il capo circondato da una corona di dodici stelle. Allora si fece strada questo simbolismo che rimanda alle radici cristiane, ma che non è un’idea confessionale, è solo qualcosa che ispira un senso positivo, che rimanda alla fratellanza e all’unità armonica, dove tutti si è uguali e tutti possono portare il loro contributo.

Manca ancora però una parte.

Sorge infatti la questione del numero. All’inizio le stelle dovevano essere tante quanto le entità statali del consiglio, ma c’era la questione dell’Alsazia ovvero una regione contesa fra Germania e Francia. E mettere una stella avrebbe riconosciuto l’autonomia come volevano i francesi, contro non una parte della Germania. Si pensa così prima al 10, poi al 13, e Levy, che aveva in mente il dodici per motivi religiosi, ne parlò con il segretario del Consiglio d’Europa, Léon Marchal, altro grande devoto alla Madonna, che morì durante un pellegrinaggio in un Santuario mariano. Marchal lo invitò a fare una bella relazione, appoggiandosi sulla simbologia occidentale presente anche nella mitologia, come le fatiche di Ercole, i segni zodiacali, e quindi la completezza dell’universo, convincendo in questo modo tutti. Poi, guarda caso, la bandiera è arrivata all’adozione l’8 dicembre del 1955, senza fare caso al fatto che siamo nel giorno in cui la Chiesa festeggia l’Immacolata Concezione. Sono casualità, ma per il credente sono anche segni della Divina Provvidenza. E chi vuole può credere che oggi l’Europa unita sia sotto questa protezione, invisibile ma potente, di Maria. Niente è imposto, ma sono segni importanti anche per chi cerca motivazioni per rilanciare e rimotivare il sogno europeo.

Questa sensibilità cristiana sta a suo avviso tornando, anche se purtroppo in modo talvolta rocambolesco, all’interno del dibattito pubblico europeo?

Deve essere un’assunzione di responsabilità, innanzitutto. Ognuno deve fare la sua parte e trovare la forza in ciò in cui crede. Se si è cristiani, questa appartenenza di fede religiosa deve spingere alla costruzione di una casa comune. Ma non basta sventolare dei simboli, bisogna capire a cosa ci ispira la nostra fede. Questo simbolismo a cosa ci rimanda? Ai valori evangelici, che sono di accoglienza, solidarietà, attenzione agli ultimi e ai poveri, quindi è la stessa prospettiva anche in chiave europea. L’Europa, che oggi è tanto contestata e sappiamo che spesso funziona male, è stata costruita sulle macerie di un’Europa uscita da due guerre mondiali, in cui si aveva chiara l’idea della necessità di convergere tutti verso un patrimonio comune, superando le divisioni drammatiche che avevano straziato il continente con milioni di morti.

E con uno spirito fortemente cristiano, nato cioè da grandi figure cristiane del novecento.

Chi lavorò alla costruzione della casa comune, e i più famosi erano cristiani e cattolici, come Robert Schuman e Alcide de Gasperi, due persone per le quali si è aperta la beatificazione, ebbero il coraggio di realizzare questo grande sogno, che allora sembrava un’utopia, di un’idea comune di continente. Condivisa da chi apparteneva ad altri ambienti. Basta pensare al Manifesto di Ventotene, con i grandi protagonisti del mondo laico. Ma anche conservatori che hanno preceduto Theresa May, che invece sta conducendo la Gran Bretagna alla Brexit, come ad esempio Winston Churchill, difensore del Regno Unito e convintamente europeista. Tanto è vero che il Consiglio d’Europa fu una sua idea, e il trattato venne firmato a Londra. Queste cose si sono dimenticate.

Secondo molti, tuttavia, c’è sempre più un rifiuto di questa idea, e l’Europa si sta allontanando dalla cristianità.

Perché dando tutto per scontato ci siamo finiti per dimenticare chi siamo e da dove veniamo, le grandi domande, e quindi si butta un po’ via tutto, perdendo l’anima. Oggi l’Europa è percepita come quella delle banche, dei ragionieri e che ci fa i conti in tasca. Totalmente lasciando da parte l’Europa dei grandi valori, della tradizione greco-romana e giudaico-cristiana, unite a formare questo grande patrimonio di cultura. Questo oggi è percepito più da chi viene da fuori. Il cardinale filippino Luis Antonio Tagle, presidente della Caritas internazionale, mi ha risposto dicendo che dall’Europa è venuta la fede cristiana, e che per lui l’Europa è un faro. Ma questo lo dice chi sta fuori. Chi sta dentro guarda solo le magagne e le cose che non vanno. Non si va in profondità, nella cultura del bello, modellata dall’umanesimo cristiano, che ha portato quel valore che permesso all’Europa di rinascere. Pensiamo al monachesimo, e a San Benedetto, fino al Rinascimento. Un patrimonio incredibile che noi oggi dimentichiamo, presi dalle paure del terzo millennio, che è partito con le Torri Gemelle, la crisi economica e la crisi delle grandi migrazioni.

Nel libro lei fa un parallelo netto tra Europa e cristianità, tanto per il passato quanto per il futuro. Come cambia questo legame oggi, con una Chiesa sempre più in uscita verso il mondo globale? Si rafforza o si indebolisce?

Il contesto globale ci costringe a pensare in termini di pianeta, basta pensare alla grande emergenza ecologista. È chiaro che certe assunzioni di responsabilità vanno affrontate in maniera totale, non si può più solo parlare di Europa. In termini di Chiesa, Papa Francesco viene dall’estremo lembo del continente americano ed è forse il Papa che ha parlato più d’Europa, dicendo cose molto importanti. Spiegando quanto il patrimonio europeo è fondamentale perché ci sia una ripresa globale del nostro pianeta, mettendolo in guardia da rischi come la perdita di speranza. Un’Europa nonna che deve tornare a essere mamma, mentre oggi c’è la crescita demografica a zero, non si fanno figli perché non si ha più fiducia nel futuro. Chi arriva dall’Africa o dall’Asia vede nell’Europa un approdo di speranza, che i nostri figli invece non vedono più. Il Papa richiama le radici cristiane, che non vanno sventolate, come è stato fatto, ma che richiamano l’idea di inclusività e di fratellanza su cui si è costruito il continente.

Un messaggio di unità e di speranza indirizzato ai candidati europei.

Assolutamente sì, alla coscienza che siamo europei. Mi è piaciuto il richiamo del presidente della Cei Gualtiero Bassetti, che ha sottolineato che la cosa più importante è la partecipazione al voto. Perché è inutile guerreggiare su chi arriva primo, secondo o terzo se la percentuale è bassa di votanti. La prima cosa, al di là della battaglie partitiche, è di riconoscersi come appartenenti alla comunità europea per migliorarla.


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