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Le strategie antagoniste di Italia e Francia nel Mediterraneo (e in Libia)

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Per molto meno, nel confronto – ancora non apertamente militare – in Venezuela tra governo e opposizione, si parla senza tema di esagerare di guerra fredda tra Stati Uniti e Russia, potenze che si competono l’influenza sul paese latino-americano: invece in Libia, dove due paesi amici e fondatori dell’Unione europea, la Francia e l’Italia, risultano supportare due schieramenti in guerra tra loro, si parla solamente di crisi libica. Come mai?

LA SCACCHIERA LIBICA

Tutto si scatena con la nuova campagna della primavera libica che il generale Khalifa Haftar il 4 aprile lancia contro Tripoli in nome della liberazione del governo libico dagli elementi islamisti e “terroristi”. La tempistica sembra più che altro legata al tanto atteso meeting di Ghadames per la Conferenza nazionale libica, organizzato per oltre un anno dall’incaricato speciale dell’Onu per la Libia Ghassan Salamé, già ministro libanese e professore a Parigi. Lo storico incontro, previsto per la metà di aprile, viene di fatto reso impossibile dagli scontri, mentre una crisi umanitaria senza precedenti investe le coscienze occidentali, con decine di migliaia di migranti prigionieri nei centri di raccolta e ostaggio delle milizie in campo.

Lo scontro sul terreno è ancora una volta, con l’esplosione della seconda guerra civile libica nel 2014, reso complesso dal magmatico mondo della geopolitica tribale: 140 tribù, con oltre 200 milizie, distribuite su un territorio immenso solo relativamente riassumibile nelle tre province di Tripolitania, Cirenaica, Fezzan. La situazione sul campo, continuamente mutevole tra passaggi di campo di milizie e di schieramento tribale, porta a una semplificazione della situazione, con l’uscita di scena dell’Isis e la riduzione dei governi da tre a due (!).

HAFTAR VS SERRAJ = PARIGI VS ROMA

Dall’autunno 2015 infatti Fayez al Serraj è la personalità politica identificata dall’inviato speciale dell’Onu Bernardino Leòn per formare un governo di unità nazionale: a fine dicembre veniva accolto dall’allora presidente del consiglio Matteo Renzi come l’uomo di equilibrio che avrebbe garantito le parti nel governo di accordo nazionale e gli interessi europei (soprattutto italiani) a Tripoli. Dopo lo scippo del presidente francese Macron dell’estate 2017 (quando l’Italia veniva esclusa dal summit di Parigi tra Serraj e Haftar), la conferenza di Palermo dello scorso autunno faceva poi ben sperare l’Italia sul mantenimento del proprio ruolo in Libia, in quanto il presidente del consiglio italiano Conte riusciva il 13 novembre a far incontrare i due leader libici. Sembrava in qualche modo un compenso all’Italia dopo che la caduta violenta di Gheddafi, nel 2011, aveva evidenziato – insieme al tentativo di Parigi di assumere un ruolo leader nel paese, al posto dell’Italia – come, una volta aperto, il vaso di Pandora libico sarebbe stato difficilmente gestibile.

Serraj, che non si basa su una forza tribale specifica e quindi sarebbe il punto di equilibrio senza risultare sbilanciato su una fazione, ha dalla sua il supporto della tribù di Misurata, la cui milizia è una delle meglio armate e addestrate del panorama libico ed è stata il principale strumento di lotta allo Stato islamico. In questo schieramento si trovano però anche le milizie vicine alla Fratellanza musulmana, i cui sostegni internazionali si rifanno alla Turchia e al Qatar. Khalifa Haftar rimane invece l’uomo del nazionalismo “laico” libico: colonnello del regime di Gheddafi, cade in disgrazia per una sfortunata operazione in Ciad e all’inizio degli anni Novanta trova rifugio negli Stati Uniti. Rientra con la caduta del raìs nel 2011, con la forza militare sul campo dei suoi soldati e il supporto dell’Egitto, che trova in lui la tanto ricercata sponda anti-islamica (vale a dire contro i Fratelli musulmani) necessaria per il mantenimento della sicurezza nazionale. I suoi importanti rapporti con Washington non gli impediscono di tessere relazioni dirette anche con altre potenze: diventa così il punto di riferimento sul campo degli interessi francesi, degli emirati arabi e dei sauditi, così come allo stesso tempo si reca a Mosca (anche nei giorni successivi alla ripresa delle ostilità) per garantirsi il sostegno della Russia.

A TRIPOLI SI GIOCA LA CREDIBILITÀ DI BRUXELLES

In realtà, come spesso succede nelle questioni del “grande medioriente”, il conflitto libico non è certo un confronto bianco-nero, quanto piuttosto una gradazione di grigi che spesso mutano tonalità e colore: e proprio qui si confrontano gli interessi nazionali dei paesi europei, qui sembra prender corpo la competizione nazionale tra cancellerie, che alla vigilia delle elezioni per il parlamento europeo – l’unica istituzione comunitaria eletta direttamente dai cittadini – assume le caratteristiche di un conflitto armato, per delega, dunque una sorta di “guerra civile europea”. Nell’intervista dell’8 maggio alla tv francese, a latere dell’incontro con il presidente Macron, Al Serraj sollecita Parigi a prendere una posizione chiara nei confronti di Haftar e, difronte alla delusione, nel giro di una manciata di ore annuncia il mancato rinnovo delle concessioni petrolifere alla francese Total. Ad ogni modo gli appelli all’Unione europea “a rimanere unita”, che si susseguono durante tutto il mese di aprile da parte dell’Alto rappresentante per gli esteri e la sicurezza europeo Federica Mogherini (il 10 aprile il governo francese bloccava, non ufficialmente ma di fatto, una risoluzione anti-Haftar da parte di Bruxelles) rivelano la debolezza di Bruxelles e l’impossibilità di comporre una spaccatura sostanzialmente insanabile.

Certo, in questo frangente la mancata presa di posizione da parte de governo Conte contro Haftar (Roma, nonostante il supporto sempre sbandierato per Tripoli, sta poi di fatto chiedendo un generico “cessate il fuoco” di fronte agli scontri) potrebbe evitare un corto circuito tra le cancellerie europee, a costo però di perdere la credibilità e i riferimenti sul campo. Roma e Parigi rimangono ancora una volta portatori di strategie antagoniste nel Mediterraneo, che nel confronto geopolitico della sicurezza energetica sul campo assumono rispettivamente i simboli della Total e dell’Eni: il tutto con il diffuso timore che l’Europa (e in primis l’Italia) venga “inondata” di migranti – è la minaccia che le parti in campo hanno prospettato a più riprese – proprio durante la campagna elettorale…

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