Dopo una maratona elettorale, il primo ministro dell’India, Narendra Modi, alla guida del Partito del popolo indiano ha vinto le elezioni. Una storica sconfitta per l’Alleanza progressista unita guidata dal Congresso nazionale indiano di Rahul Gandhi. La coalizione di centrodestra indiana ha conquistato 349 seggi, su un totale di 542 in palio, quindi ben oltre la soglia della maggioranza assoluta di 272 seggi.
Decisivi per il trionfo di Modi sembrano essere stati il tema della sicurezza nazionale e la leadership dell’“uomo forte” dell’India. Il candidato ha saputo sfruttare una situazione teoricamente negativa (lo scontro con il Pakistan) in un fattore favorevole per la sua rielezione.
In un’intervista con Formiche.net, Nicola Missaglia, research Fellow per l’Asia e l’India dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, spiega la strategia da “uomo della strada” più che “populista” di Modi, il consenso trasversale, la dimensione sovranista della sua proposta, il peso della religione nella politica indiana, il ruolo nei nuovi equilibri geopolitico e le nuove sfide della potenza asiatica…
Com’è riuscito Modi a vincere queste nuove elezioni, nonostante il rischio di una guerra con il Pakistan? Qual è stata la sua strategia elettorale?
Il rischio di un conflitto con il Pakistan, rivale storico dell’India con cui il paese ha già combattuto quattro guerre sin dalla sua fondazione, non ha compromesso il consenso elettorale e la credibilità di Modi. Anzi li ha rinsaldati, se non addirittura ampliati a fasce della popolazione che sino a febbraio erano meno sensibili al discorso nazionalista del primo ministro. La reazione decisa dell’India all’attentato terroristico in Kashmir, secondo New Delhi sponsorizzato dal Pakistan, ha permesso a Modi di dare nei mesi prima del voto un fondamento solido all’insistenza sul tema della nazione e dell’identità indiane, in questo caso minacciate da un nemico esterno. Ma in campagna elettorale Modi non ha puntato solo sul nazionalismo: lui e il Bjp, il suo partito, hanno improntato la strategia sull’esaltazione dei temi meno divisivi (per esempio la bassa inflazione) e delle misure introdotte dal governo uscente a sostegno dei più poveri, come la costruzione di decine di milioni di bagni nelle aree remote del paese (in India sono oltre 200 milioni le famiglie che non possiedono un bagno), o l’allacciamento alla rete elettrica di migliaia abitazioni rurali che sino ad ora ne erano private.
Il primo ministro dell’India cavalca l’onda nazionalista globale?
Che in un modo o nell’altro Modi riesca a cavalcarla è probabile, lo dimostrano le sue buone relazioni con altri “uomini forti” della politica globale, come Donald Trump o Vladimir Putin. Tuttavia, che la cavalchi o meno sul piano internazionale, il nazionalismo di Modi – come del resto quello di molti leader nazionalisti – è rivolto soprattutto al piano interno, alle centinaia di milioni di cittadini indiani che il primo ministro vuole unire attorno a una identità comune, fatta di un mix di induismo e orgoglio nazionale. È chiaro che in un paese così “plurale” come l’India, in cui si parlano decine di lingue diverse e in cui convivono religioni, etnie e caste ognuna con la propria memoria storica e sociale, il progetto nazionalista di Modi comporta dei rischi: perché a fare le spese di una retorica identitaria e maggioritaria finiscono per essere soprattutto le minoranze. Detto ciò, l’India rimane pur sempre la più grande democrazia del mondo e, come le nostre democrazie molto più piccole, sta attraversando una fase di ripensamento, di rigurgiti identitari e, forse, di crisi. Ma per, il momento, la democrazia stessa – una conquista a cui gli indiani tengono moltissimo – non è in discussione.
Diplomazia dello yoga, medicina tradizionale, benessere. Con i suoi programmi ha saputo rappresentare gli interessi dei cittadini comuni. Modi è un leader populista?
Modi può certamente essere definito come un leader populista, non necessariamente in un’accezione negativa, ma certamente per il fatto di aver creato con “l’uomo della strada” un rapporto che quest’ultimo percepisce come diretto, orizzontale. Modi stesso è un uomo del popolo, che da bambino serviva il tè ai viaggiatori di una stazione ferroviaria nello stato del Gujarat. Che poi abbia davvero fatto gli interessi dei cittadini comuni è stato contestato da più parti: al di là della retorica, la sua promessa più ambiziosa quando fu eletto per la prima volta nel 2014 era stata quella di creare decine di milioni di posti di lavoro, cosa che secondo gli ultimi dati sulla disoccupazione non sarebbe accaduta. Anche l’economia cresce, ma cresce meno del previsto, e soprattutto sembra che i frutti della crescita economica per il momento stiano portando più benefici ai pochi indiani più ricchi che alle centinaia di milioni di poveri. Ciononostante, è chiaro che gli indiani credano ancora in lui, e penso che questo consenso così trasversale non sia solo dovuto alle sue abilità retoriche e al suo nazionalismo.
L’India, e i suoi cittadini, sentono di meritare oggi un posto migliore nel mondo, e vedono in Modi l’unico leader politico che al momento possa ambire a darglielo. Quanto allo yoga, alla medicina tradizionale e al benessere, credo che non siano al centro del rapporto tra Modi e i suoi elettori: anche se certamente, l’enfasi su questi antichi e nobili retaggi della cultura indiana (e soprattutto hindù) serve a dare nuovo lustro all’identità e al “brand” dell’India nel mondo.
Quanto pesa la religione nella politica di Modi?
La religione, quella induista, pesa certamente molto nella politica di Modi. Politicamente, prima di diventare un leader del BJP, Modi è cresciuto nei ranghi delle Rashtriya Swayamsevak Sangh, o RSS, un’organizzazione che promuove nazionalismo indù intransigente e militante. In India l’80% della popolazione è hindù, ed è questa grande maggioranza che Modi ambisce (anzi è riuscito) a legare a sé quando ricorre a metafore religiose nei suoi discorsi, fa costruire templi, si fa fotografare quando prega o medita, o quando decide di cambiare il nome a intere città solo perché questo era legato all’epoca della dominazione Moghul dell’India, e quindi a un retaggio storico musulmano. Tuttavia, Modi è stato sempre molto abile a bilanciare un discorso di tenore più “religioso” e identitario, con un discorso più rivolto alla crescita economica e allo sviluppo. Ed è per questo che, come dimostra il risultato di queste elezioni, il consenso per il primo ministro è ampio e trasversale. Anche perché, quando l’economia delude le aspettative, può sempre ricorrere alla carta religiosa.
Modi ha fatto promesse in materia economica, quali sono le nuove sfide?
La prima sfida in assoluto per il prossimo governo è quella della creazione di nuovi posti di lavoro. L’India è un paese di 1,34 miliardi di cittadini, la maggior parte dei quali giovani, e presto sarà la nazione più popolosa al mondo. Con una popolazione che cresce a questi ritmi, già oggi sono 1 milione gli indiani che entrano nel mercato del lavoro ogni mese! È un numero di fronte al quale qualsiasi governo dei paesi occidentale rabbrividirebbe. La seconda sfida è la crescita economica che con questi tassi demografici deve rimanere sostenuta anche nei prossimi anni. Per garantirla, il nuovo governo dovrà fare riforme coraggiose in materia fiscale, nel settore bancario e in quello industriale, investendo moltissimo sulla costruzione di nuove infrastrutture per aumentare connettività del paese con l’estero, ma soprattutto per ridurre le disparità interne tra stati indiani ricchi e stati poveri, e tra cittadini più agiati e quelli con meno opportunità. Per questo dovrà investire molto anche sull’istruzione, per garantire a fasce sempre più ampie della popolazione indiana di essere competitivi in un’epoca di sviluppi tecnologici dirompenti per il mercato del lavoro. Un’ultima sfida urgente per il prossimo governo Modi riguarda l’agricoltura. Il 66% della popolazione indiana è ancora impiegato in questo settore, e da anni gli agricoltori protestano per le condizioni di indigenza crescente in cui versano: per il declino della produzione, gli effetti dei cambiamenti climatici, e l’abbassamento dei prezzi dei cereali. Una riforma agricola è ormai indispensabile.
Come saranno i rapporti dell’India a livello geopolitico in questo mandato? Con chi sarà amico e con chi nemico?
Tradizionalmente, l’India – tra i leader del movimento dei non-allineati – ha sempre rifiutato di impegnarsi in alleanze strutturate che la vincolassero troppo nelle proprie scelte di politica estera. Nell’epoca della Guerra Fredda, con governi di tendenza socialista, intratteneva buoni rapporti con l’Unione Sovietica, ma nei decenni successivi, e soprattutto oggi, ne intrattiene di altrettanto buoni con gli Stati Uniti e con gli stati europei. Tra le grandi sfide geopolitiche e geoeconomiche per l’India di oggi c’è la competizione con la Cina che sotto la presidenza di Xi Jinping e la Belt and Road Initiative è diventata sempre più assertiva sia nella regione che nel mondo. L’India è tra i paesi che hanno rifiutato di aderire alla nuova via della seta cinese, per mantenere – così si dice a New Delhi – la propria indipendenza economica e commerciale: anche se nei fatti i governi indiani sanno bene che Pechino, almeno dal punto di vista dell’interscambio commerciale, rimane un partner fondamentale per l’India. Credo che i due paesi continueranno a fare affari, e su alcuni fronti collaboreranno: entrambi fanno parte della Shanghai Cooperation Organization e dei BRICS. Ma allo stesso tempo, alla luce del sole la competizione continuerà: New Delhi ha capito che l’Oceano indiano sta diventando un’area sempre più centrale e strategica della geopolitica mondiale, e non ha alcuna intenzione di farsi “derubare” da Pechino (che oltretutto sostiene il Pakistan) della propria tradizionale influenza in questo mare. Non è un caso che l’India stia stringendo partnership sempre più strutturate con paesi come il Giappone o l’Australia, ugualmente interessati a contenere l’espansionismo cinese.