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Tutte le sfide (anche interne) della Nato dopo i suoi primi 70 anni

Di Alessandro Marrone e Karolina Muti

Nell’anno del suo settantesimo compleanno la Nato è in buona forma, con qualche acciacco tipico
dell’età che si traduce nella (comprensibile) difficoltà di adattarsi con la necessaria rapidità a un quadro geopolitico in continuo e sempre più rapido mutamento.

SFIDE INTERNE ED ESTERNE

Le sfide sull’orizzonte sono diverse e complesse, e si possono dividere in due categorie che si intersecano tra loro: esterne ed interne. Le sfide esterne sono, paradossalmente, quelle più a breve termine, alle quali la Nato può rispondere con più facilità ed efficacia, perché la loro presenza costituisce la raison d’etre stessa dell’Alleanza atlantica – quest’ultima non sempre e non per tutti scontata. Le sfide interne, al contrario, sono più subdole, a lungo termine, e hanno a che fare con fattori difficilmente misurabili, come la fiducia nell’alleanza di chi ne fa parte, la solidarietà tra alleati, il pieno rispetto degli impegni presi.

Le sfide esterne sono inoltre in gran parte già note. Sul fianco orientale la Russia, che, in parallelo all’annessione illegittima e manu militari della Crimea nel 2014, da un lato utilizza tattiche rodate come il finanziamento a partiti considerati più favorevoli a Mosca, e dall’altro si è velocemente attrezzata per muoversi su terreni nuovi: le massicce campagne di fake news sui social media, dirette verso l’opinione pubblica dei paesi Nato e capaci persino di spostare delicati equilibri elettorali nelle democrazie occidentali, ne sono un esempio. Le sfide che si giocano sul fianco Sud, con la recente tornata di moti di rivolta in Algeria e Sudan e il caos libico, si aggiungono a una condizione già fragile nella regione del Sahel e del Medio Oriente, con una pericolosa connessione potenziale tra terrorismo di stampo jihadista, criminalità organizzata e flussi migratori.

IL GRAND DESIGN E IL RISCHIO DI OVERSTRETCHING

Nonostante la complessità delle potenziali minacce sull’orizzonte, la Nato ha dimostrato nel tempo la capacità di adattamento e prontezza nel farsi carico di compiti nuovi e non previsti, dimostrando una certa efficacia nel perseguire gli obiettivi che, a torto o a ragione, si è posta. In questo caso, l’Alleanza persegue attualmente tre scopi principali: la difesa collettiva, la gestione delle crisi e la sicurezza cooperativa.

Per quanto riguarda la difesa collettiva, l’Alleanza ha risposto alla minaccia russa e alla conseguente richiesta di maggiore presenza sul fianco orientale dei Paesi Baltici e della Polonia, mettendo in atto il Readiness Action Plan ed in particolare l’operazione Enhanced Forward Presence, con 4 battaglioni multinazionali a rotazione, di circa 1000 unità ciascuno, ad assicurare la necessaria deterrenza rispetto alla Russia sui confini baltici e polacco. Allo stesso tempo, questo rafforzamento della postura militare alleata ad est è stato in qualche modo controbilanciato dall’apertura del Nato Strategic Direction South Hub a Napoli nel settembre del 2017, volta a garantire una maggiore presenza anche sul fianco sud per lo meno in termini di situational awareness rispetto ad Africa e Medio Oriente e di rafforzamento dei contatti con gli interlocutori locali e regionali.

Le attività Nato di gestione di crisi e stabilizzazione post-conflitto  comprendono missioni che spaziano dall’assistenza, training e capacity building nei settori della difesa e sicurezza dei Paesi beneficiari, a quelle di anti terrorismo, sorveglianza marittima, e protezione degli spazi aerei, con un totale di circa 20, 000 unità dispiegate in varie zone del globo, principalmente nei Balcani e nel vicinato dell’Europa.

L’obiettivo della sicurezza cooperativa si è espresso principalmente, oltre che con l’allargamento dell’Alleanza e gli sforzi quanto a controllo degli armamenti e non proliferazione, attraverso la creazione di partnership con paesi extra Nato. Si è iniziato, negli anni 90’, dal coinvolgimento in formati quali l’Euro-Atlantic Partnership Council, il Partnership for Peace, e poi il Nato-Russia Council della Russia e degli stati appartenenti all’ex Unione Sovietica e al Patto di Varsavia. Parallelamente verso il Nord Africa e il Medio Oriente sono nati anche il Mediterranean Dialogue, che comprende sette stati arabi dal Marocco alla Giordania e Israele e la Istanbul Cooperation Initiative con i Paesi del Golfo. Sono stati inoltre stretti legami importanti con altre organizzazioni internazionali come l’Ue – dagli accordi di Berlin Plus del 2003 alle dichiarazioni congiunte del 2016 e 2018 – l’Osce o l’Onu, e partenariati con Paesi a vario titolo interessati a cooperare con la Nato quali le democrazie del Pacifico – Australia, Giappone, Corea del Sud – o l’Afghanistan dove l’Alleanza è militarmente impegnata dal 2003.

Quella della sicurezza cooperativa perseguita attraverso formati bilaterali e multilaterali è stata, nel periodo post-guerra fredda, forse una delle intuizioni più lungimiranti dell’Alleanza. L’apertura di canali di comunicazione istituzionalizzati, anche e in primis con paesi che fino a poco prima erano considerati nemici “esistenziali” dell’Occidente, ha permesso alla Nato di creare una vasta rete di contatti e collaborazioni, garantendo un canale per lo scambio di informazioni e uno spazio di dialogo politico-militare, permettendo di avvicinare le diverse visioni e cooperare concretamente in alcuni settori specifici. I vari formati di sicurezza cooperativa non producono effetti e benefici immediatamente riconoscibili nel breve termine, tuttavia, in un quadro geopolitico dalle alleanze discontinue e sempre più ad hoc, rappresentano uno strumento che risponde alle attuali esigenze dell’Alleanza di dialogare a geometria variabile, in formati flessibili, privilegiando la ricerca di interessi condivisi piuttosto che affinità valoriali.

Nel caso del difficile rapporto con Mosca, ripristinare il pieno dialogo nel quadro del Nato-Russia Council, di cui dal 2014 è proseguita a intermittenza e in formato limitato la consultazione a livello di ambasciatori, dovrebbe essere un primo step in una più ampia strategia a lungo termine volta a recuperare una relazione che oggi è quanto mai compromessa.

Le tre componenti rappresentano nell’insieme una solida cornice strategica e concettuale, un adeguato grand design, tuttavia, il rischio che si corre nella pratica e/o nella dimensione più operativa, è di perdere d’efficacia nel tentativo di perseguire obiettivi ambiziosi, se non si mettono a disposizione le necessarie risorse politico-militari- in una sorta di overstretching.

CREDIBILITÀ POLITICA E RISORSE MILITARI

Nonostante il difficile quadro internazionale esterno alla Nato, le sfide più grandi emergono nel cuore stesso dell’Alleanza. Emblema di questa crisi interna è la presidenza Trump. Il rischio che l’approccio trumpiano pone per l’Alleanza è quello di mettere in discussione le colonne portanti della stessa, ovvero la garanzia americana sulla difesa collettiva dell’Europa, facendo crollare la fiducia e la credibilità dell’impegno degli Stati Uniti verso i partner europei e incoraggiando iniziative bilaterali. In poche parole, un regalo fatto a paesi come Cina e Russia che vogliono gli alleati divisi e dunque privi del peso militare e politico garantito dall’appartenenza al blocco atlantico.

Questo approccio, ampiamente presente anche in Europa con l’ascesa di leader e governi avversi a formati multilaterali, se sommato alla negligenza di gran parte dei Paesi europei nell’allocare risorse adeguate al settore della difesa, genera un binomio pericoloso e controproducente. Nonostante quasi tutti i Paesi Nato – ad eccezione purtroppo dell’Italia – abbiano aumentato in modo significativo negli ultimi quattro anni le spese nella difesa, per molti l’obiettivo di spendere il 2% del PIL in questo ambito entro il 2024 – sancito solennemente dagli alleati nel vertice del 2014 – resta difficilmente realizzabile. Di conseguenza, se da un lato il valore di far parte dell’Alleanza atlantica viene svestito di credibilità ed efficacia dai suoi stessi membri, dall’altro l’insufficiente investimento nella difesa da parte degli europei ha una serie di conseguenze e rischi immediati.

In primis, a livello strategico, le ambizioni della Nato per quanto riguarda la difesa collettiva, la gestione delle crisi e la sicurezza cooperativa rischiano di diventare lettera morta nel medio-lungo periodo, se non verranno sostenute da una volontà politica capace di stanziare risorse adeguate per il raggiungimento di questi scopi. In secondo luogo, a livello operativo, la galoppante innovazione tecnologica, che negli ultimi anni ha riguardato settori come quello dell’intelligenza artificiale o delle biotecnologie, aumenterà il gap tecnologico tra gli Stati Uniti e i Paesi europei, e dunque renderà più difficile l’interoperabilità nelle missioni militari congiunte, rischiando di tagliare fuori gli Stati che non staranno al passo di questi sviluppi. Infine, a livello diplomatico, la retorica sovranista che invita all’unilateralismo, allontana gli alleati storici e sminuisce i formati tradizionali di cooperazione, genera a livello diplomatico un effetto “terra bruciata” molto pericoloso, specialmente se alla base non vi è l’intenzione di investire risorse nazionali massicce a sostegno di questa sovranità. Nel caso della difesa si scherza con il fuoco, e oltre a spegnere le candeline per celebrare i 70 anni dell’Alleanza occorre adoperarsi per assicurare sicurezza e stabilità nell’area euro-atlantica anche per il prossimo futuro.

Alessandro Marrone è responsabile del Programma Difesa dell’Istituto Affari Internazionali Iai

Karolina Muti è ricercatrice junior nei Programmi Sicurezza e Difesa dello Iai


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