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Così la Nato si adatterà al bipolarismo Usa-Cina. Parla Dottori

Di Enrico Casini

Il confronto che si sta delineando, a livello internazionale, tra Stati Uniti e Cina, può portare alla nascita di una sorta di nuovo bipolarismo, sul modello della Guerra Fredda. Una tendenza emergente della grande politica internazionale e un fenomeno difficile da bloccare che – spiega il professor Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes e docente di Studi strategici all’università Luiss “Guido Carli” di Roma – potrebbe portare l’Alleanza atlantica a riqualificarsi come un progetto globale di contenimento dell’ascesa della Repubblica Popolare.

Professor Dottori, lo scorso aprile la Nato ha celebrato 70 anni dalla firma del suo trattato fondativo. In questo lungo periodo l’Alleanza atlantica è molto cambiata, provando ad adattarsi ai mutamenti dello scenario internazionale, dalla fine della Guerra Fredda in poi. Che bilancio se ne può fare?

L’Alleanza atlantica ha vinto la Guerra Fredda ed è riuscita a proteggere efficacemente gli Stati che hanno deciso di farne parte. E lo ha fatto ad un costo ragionevole per tutti. Dopo il crollo del Muro di Berlino ha attraversato una crisi d’identità alla quale peraltro non è sfuggito nessun attore maggiore della politica internazionale in quest’ultimo quarto di secolo. Forse è stato anche fatto qualche errore, ma nel complesso la Nato ha tenuto. E potrebbe tornare utile anche negli scenari che si stanno preparando per il futuro.

Qual è stato il ruolo della Nato e degli Usa – che ne sono il membro di riferimento – nel processo di ricostruzione e di integrazione pacifica dell’Europa dal secondo dopoguerra fino ai nostri giorni?

Senza Alleanza atlantica e Piano Marshall non avremmo avuto il processo d’integrazione europea, che alle origini è servito ad evitare che nuove rivalità intraeuropee indebolissero la coesione del blocco occidentale nei confronti dell’Unione Sovietica. Ne abbiamo ovviamente beneficiato anche noi, perché nella Comunità europea, poi divenuta Ue, il ricorso alla guerra è diventato inimmaginabile. Questo dato viene spesso dimenticato da chi oggi immagina di rilanciare l’europeismo ammantandolo di velleità di potenza assolutamente controproducenti. Costruire l’integrazione europea “contro” qualcuno non aiuterà la causa dell’Europa. Un programma euro-nazionalista costringerebbe chiunque si sentisse minacciato dalla sua realizzazione ad agire preventivamente contro il processo d’integrazione europea. Date le vulnerabilità della costruzione comunitaria, sarebbe un gioco fin troppo facile. Come europei dobbiamo quindi badare al sodo, a difendere ciò che abbiamo già conquistato, che non è poco.

Guardando invece al presente, quali sono secondo lei le principali sfide, sul piano politico e strategico, che l’Alleanza atlantica si trova oggi a dover fronteggiare?

A mio avviso in Europa dobbiamo capire che lo stato d’animo dell’americano medio non è più quello degli anni cinquanta del secolo scorso, quando negli Stati Uniti ogni famiglia vedeva nell’Unione Sovietica una minaccia al proprio stesso stile di vita: qualcosa che giustificava un impegno dell’America a 360 gradi in ogni angolo del mondo. La sfida che la Nato fronteggia è quella di dimostrarsi ancora utile al contribuente americano, che è colui che elegge il Congresso e il presidente degli Stati Uniti. Se l’urto tra Stati Uniti e Cina si inasprisse, non escludo che l’Alleanza atlantica possa riqualificarsi come un progetto globale di contenimento dell’ascesa di Pechino. Evidentemente aperto anche agli apporti di Paesi molto lontani, come Giappone ed Australia, che in realtà già parlano e collaborano molto con Bruxelles. I soldati australiani in Afghanistan, ad esempio, hanno operato fianco a fianco con quelli degli alleati atlantici. A certe condizioni, se la Russia si distanziasse dalla Cina, potrebbe cambiare anche il rapporto tra Bruxelles e Mosca. La logica del realismo politico lo imporrebbe. Ma certamente i tempi non sono ancora maturi. È un discorso di prospettiva.

Nel momento in cui gli interessi strategici americani si stanno spostando verso il Pacifico, come dovrebbe reagire la Nato?

Diventando più marittima, più aerospaziale e globale. Non è un passaggio semplice, ma se le circostanze lo imporranno ci si dovrà pensare.

Il confronto che si sta delineando, a livello internazionale, tra Stati Uniti e Cina, può portare alla nascita di una sorta di nuovo bipolarismo, sul modello della Guerra Fredda?

Al momento, mi sembra la tendenza emergente della grande politica internazionale. Un fenomeno difficile da bloccare. Deriva non soltanto dalla crescita dell’influenza politica ed economica cinese, ma soprattutto dalle grandi ambizioni di Xi Jinping e del gruppo dirigente che lo sostiene. La Cina non pensa più soltanto ad arricchirsi, si muove invece in una logica geopolitica che punta diritta alla messa in discussione della supremazia planetaria degli Stati Uniti e dell’Occidente. Mandano sonde sulla faccia nascosta della Luna e a presidiare i punti di Lagrange che controllano le rotte tra la Terra e il suo satellite naturale: perché?

L’Italia è uno dei Paesi fondatori del’Alleanza, nonché uno di quelli che ha offerto un alto contribuito alle missioni, talune ancora oggi in svolgimento. Questa linea proseguirà?

La mia speranza è che nel confronto che si profila il nostro Paese mantenga l’allineamento internazionale che ne ha permesso la ricostruzione, senza tentennamenti e senza cedere ad alcuna lusinga. E che le circostanze internazionali siano propizie a che ciò accada.

L’Italia si batte da anni perché il tema della sicurezza sul Fianco sud sia al centro degli interessi e delle attenzioni della Nato. L’Alleanza potrebbe fare di più nel Mediterraneo?

Bisogna intendersi: la Nato può fare di più nel Mediterraneo ed è un bene che inizi a muoversi in tal senso, ma anche noi dobbiamo fare la nostra parte, come ci viene chiesto da tempo anche dagli americani. Lo ha fatto Obama, lo ha ribadito Trump. Quindi rimbocchiamoci le maniche. È chiaro che spese militari al 2% del Pil sono per noi inarrivabili. Ma continuare ad ammodernare ciò che abbiamo, confermando gli investimenti programmati, sarebbe un segnale nella giusta direzione. È importante anche che nel nostro Paese maturi una coscienza migliore del ruolo che la forza è tornata a svolgere nei rapporti internazionali. È un fenomeno che possiamo deprecare quanto vogliamo, ma che fa parte della nostra realtà. Dobbiamo esserne consapevoli. Infine, sarebbe opportuno prestare maggiore attenzione anche al riverbero geopolitico di alcune scelte contingenti che facciamo sulla sola base di considerazioni puramente commerciali o finanziarie. Possono infatti provocare danni più che proporzionali.

Enrico Casini, direttore dell’Associazione culturale Europa Atlantica


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