Di questo passo, del primo maggio non rimarrà che lo stantio rito del concerto di piazza San Giovanni. Dove ci si va per far casino, baldoria, e, se proprio si è un po’ politicizzati, per dire e sentirsi dire dai conduttori che i potenti della terra stanno portando alla rovina il pianeta e che in Italia c’è il “nuovo fascismo” al potere (ieri quello di Silvio Berlusconi, oggi quello di Matteo Salvini). D’altronde, la scelta dei presentatori, e poi quella degli artisti che fino a notte fonda si alternano sul palco, è fatta proprio secondo sperimentati criteri di marketing.
In effetti, il pubblico di giovani politicizzati, o comunque impegnati nel sociale, sono una nicchia di mercato ben definita e anche rilevante, cui bisogna “vendere” a buon prezzo le idee e gli slogan dell’antagonismo no globale di uno stile di vita in apparenza alternativo (dal vestire trasandati al farsi le “canne”) ma sostanzialmente innocuo e perfettamente integrato nel sistema. Quanto poi al lavoro, quello che si dovrebbe festeggiare il primo maggio, chi va al “concertone” spesso non sa nemmeno cosa sia. O almeno non lo conosce in quelle forme rigidamente standardizzate che portavano un tempo i lavoratori ad “alienarsi” nell’oggetto che producevano, ma anche a maturare una “coscienza di classe”, come si diceva allora, da poter opporre, come forza organizzata e decisa nelle proprie rivendicazioni, al “padronato”.
Di quella lotta i sindacati erano, all’un tempo, espressione e attori, e il primo maggio era simbolicamente la data in cui, sfilando in corteo o unendosi in ascolto dei loro leader, i lavoratori si sentivano un corpo unico, quasi mistico, e mostravano al “nemico di classe” tutta la loro forza. Sia beninteso, anche oggi i cortei sfileranno e i segretari confederali prenderanno la parola, ma, dietro la forma sempre uguale, ci sarà la consapevolezza che tutto un mondo è finito e che, se vogliamo dirla in modo brutale, il “nemico” ha vinto sparigliando il campo.
Esso è ora una forza impersonale che non è nemmeno facile individuare e che comunque non è identificabile con lo “sciur padrun da li beli braghi bianchi” a cui bisognava far “tirar fora li palanghi”. Quelli, i “palanghi”, son diventati qualcosa di inafferrabile anche essi, di virtuale (fino all’estremo delle criptovalute) e reale al tempo stesso. I “padroni”, quelli di un tempo, sono anche loro, come gli operai, una forza residuale: stanno sulla stessa barca, dominati da movimenti globali (in Emilia-Romagna si è persino pensato in questi giorni di aggregarli alle manifestazioni!). Quanto al lavoro, quello o non c’è proprio o, se c’è, è tutt’altra cosa: spezzettato, precario, ma ancor più insensato e “alienante” di quello di un tempo: “devi prenderlo o lasciare”, e non c’è sindacato che abbia la forza di negoziare per te.
Le stesse idee, forza motrice della storia, se ne sono andate, o si son ridotte a quelle del mainstream fintamente antagonista e commerciale di cui dicevo all’inizio. Il sistema ha comprato anche l’anima e non solo le braccia di chi, pur non lavorando nelle forme di un tempo, continua a faticare come un matto. D’altronde, non esiste per il sindacato nemmeno più un Partito che faccia da sintesi e verso cui fungere da “cinghia di trasmissione”.
E le forze “populiste” hanno molto più appeal fra gli “sconfitti”, perché almeno provano a intercettare il loro malcontento. Non si può essere nostalgici, né pensare che si possa ritornare indietro. Come sempre, il realismo imporrebbe di affrontare le nuove sfide e provare a lavorare a nuove sintesi. Il ventunesimo secolo ha ormai raggiunto la maggiore età, è grandicello: dovremmo avere tutti il coraggio di volgere le spalle al Novecento. Andrebbe ripensato tutto, ma chi ne ha la forza e la capacità? Intanto, perché non abolire una festa che ha perduto l’anima e che senso più non ha.