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Perché quella di Salvini è una svolta più liberale che moderata

Con il solito acume che, per interesse o per incapacità di uscire dagli schemi mentali del passato la maggior parte degli analisti politici italiani oggi non ha, Francesco Giubilei afferma che “se si vuole realmente comprendere la politica della Lega e delle altre forze sovraniste europee è necessario partire da un assunto: non sono partiti di destra o, per lo meno, non appartengono alla destra come siamo abituati a conoscerla ma è più corretto definirli partiti post-deologici”. È infatti di “destra” prendersela, come ha fatto Matteo Salvini nel discorso di chiusura della kermesse milanese dei partiti “sovranisti”, con la grande finanza e mettersi dalla parte dei deboli e sfruttati econonomicamente? È di “destra” dire che non si accetterà sul territorio europeo mai la presenza, e casomai il predominio (profetizzato da Michel Houellebecq), di una cultutra, come quella islamista, per cui la donna è inferiore all’uomo? Essere un partito post ideologico significa però essere naturali e un partito “moderato” o di “buon senso” (anche se i toni e i modi di porsi possono sembrare “immoderati”).

Ove il buon senso coincide spesso, come in questo caso, col senso comune, ma mai con l’“estremismo” costruttivistico di chi, ad esempio, vorrebbe imporre, all’Europa e al mondo intero, un modello astratto e razionalistico di efficienza economica e il correttismo etico-politico. Quindi, se il discorso tenuto a Milano segna una “svolta”, non è tanto a mio avviso nella direzione del “moderatismo” che bisogna guardare bensì in quella del liberalismo.

Da questo punto di vista, Salvini ha lanciato segnali inequivocabili. Prima di tutto insistendo sulla necessità di ridurre le tasse, venire in soccorso del “ceto medio” (che è l’ossatura delle società liberali e che oggi è in affanno) e favorire per questa via la crescita economica (la flat tax più che come un feticcio simbolico va interpretata a mio avviso in quest’ottica). Poi, inserendo tanti nomi cari ai liberali nel suo discorso, che è venuto a costituire un ideale pantheon liberal-conservatore e liberal-cristiano: da Winston Churchill ad Alcide De Gasperi, fino alla signora Thatcher.

Proprio la presenza di Margaret Thatcher fa capire che il leader della Lega intende ancorare il liberalismo, anche economico, allo Stato Nazione, cioè alla potenza o interesse nazionale. Ciò secondo tradizione, nonostante che ancora oggi certi “commessi viaggiatori del liberismo” (come li chiamava Benedetto Croce) credano che quest’ultimo, per affermarsi, debba operare in uno spazio globale e sovranazionale.

Quasi come se l’individuo fosse un ente astratto e disincarnato e la libertà non si stagliasse sempre, pena contraddirsi, su un fondo di necessità. Quel fondo che, nel concreto, sono le nostre comunità di destino. Le uniche, fra l’altro, che possono salvarci dall’omologazione, dal conformismo e dal predominio illiberale di regole e vite standardizzate. Il riferimento alla Thatcher segnala anche la necessità di un “partito liberale di massa”, fortemente politico e antielitario, come fu quello della Lady di ferro (come ci hanno insegnato ultimamente i lavori di studiosi accreditari quali Antonio Masala e Lorenzo Castellani).

In fondo, quello di Salvini è anche il programma che fu di Silvio Berlusconi, aggiornato ai tempi dei new media (che il Cavaliere fermo alla sola televisione non ha mai capito) e di un contesto internazionale e geo-politico nel frattempo molto cambiato. Anche la reazione della sinistra è, tutto sommato, sempre la stessa, ferma agli schemi dell’ “emergenza democratica” e del “fascismo” avanzante. Salvini, in sostanza, è l’erede non scelto (e perciò non un clone ma veramente tale) del Cavaliere. E il suo “spostarsi al centro” era ed è mella logica stessa delle cose. Il fatto è che in politica il vuoto non esiste e certi irrisolti problemi trovano naturaliterchi se ne fa carico, cioè lo spazio di rappresentanza. In modo sempre “rozzo” e imperfetto, parziale e anche a volto contraddittorio. La politica, in effetti, come la vita reale, è prosaica e solo in rari momenti si fa in versi.

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