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Un attacco Usa in Venezuela sarebbe controproducente. L’analisi di Carlo Jean

“Sostanzialmente mi pare che siamo davanti a una situazione di stallo, perché l’evoluzione è molto legata al comportamento delle forze armate venezuelane che per il momento non si sganciano dal regime in modo consistente (se si fa eccezione della dissociazione del capo dei servizi di intelligence), è questa la lettura della crisi in Venezuela di Carlo Jean, generale e professore di studi strategici a Scienze Politiche dell’Università Luiss di Roma.

Jean analizza la situazione con Formiche.net in un momento piuttosto delicato della crisi. Sebbene il Pentagono smentisca qualsiasi genere di preparativo (ufficiale) in corso per un’azione militare in Venezuela – “piani di emergenza, ma solo routine” è la posizione della Difesa americana – la retorica con cui l’amministrazione statunitense insiste sulle dimissioni del dittatore Nicolas Maduro per permettere al leader dell’opposizione Juan Guaido di formare un nuovo governo è sempre più aspra.

Nella serata di mercoledì, per esempio, il presidente Donald Trump è intervenuto telefonicamente a Fox News dicendo che oggi “le cose potrebbero peggiorare” e che gli Stati Uniti sono pronti “a fare tutto quello che serve” per aiutare “il popolo del Venezuela e la loro libertà”. “Il presidente [Trump] è stato cristallino e incredibilmente coerente”, ha dichiarato sempre ieri il segretario di Stato, Mike Pompeo, a Fox Business Network: “L’azione militare è possibile: se è ciò è richiesto, è quello che faranno gli Stati Uniti”. Nello stesse ore, il capo del Pentagono Patrick Shanahan, il Capo dello Stato Maggiore congiunto, Joseph Dunford, e il comandante del SOUTHCOM (il comando del Pentagono che copre il Sud), Craig Faller, comparivano davanti a diverse commissioni congressuali, convocati dai legislatori per chiedere il quadro della situazione.

L’Operacion Libertad lanciata da Guaidò il 30 aprile, può riuscire a sfondare e detronizzare il satrapo chavista senza aiuti esterni?

“A mio avviso – spiega Jean – per come stanno le cose adesso non riuscirebbe nemmeno con un aiuto esterno, perché un intervento straniero compatterebbe le forze armate contro l’invasore, e lo stesso succederebbe anche nell’opinione pubblica, soprattutto se si trattasse di un’operazione diretta statunitense, perché finirebbe per essere vista come un’azione di conquista per arrivare a mettere le mani sul petrolio e sulle altre risorse del paese”.

“E – continua il generale – un colpo di stato militare mi sembra improbabile, dato che i capi militari guidano, traendo proventi, le esportazioni di petrolio e dell’oro. Maduro ha confermato questi benefici consegnati all’esercito dal regime di Chavez che lo ha preceduto. Tutto sommato è una prassi classica dei regimi: mantengono attivi i collegamenti con i militari, dando loro dei benefici, per assicurarsi la sicurezza e fedeltà al potere. Per questo pare difficile che lo lascino”.

Sul terreno è stato segnalato, prima a gennaio e poi alla fine di marzo, personale militare russo, probabilmente mandato a sostenere corsi di addestramento rapido alle forze venezuelane che intendono difendere Maduro. Addirittura, a dicembre del 2018 i russi inviarono in Venezuela due bombardieri strategici T-160. Sappiamo, per una dichiarazione di Pompeo alla CNN il 30 aprile, che la Russia, davanti alla rivalità con gli Stati Uniti, ha lavorato per spingere alcuni politici e funzionari venezuelani a non abbandonare Maduro, ma potrà giocare anche un ruolo sulla crisi anche dal punto di vista militare?

“La deterrenza reale – analizza Jean – la può esercitare soltanto con minacce nucleari, perché dal punto di vista convenzionale gli Stati Uniti hanno un’enorme superiorità in quell’area. La Russia, al di là degli show di forza, non ha una capacità di difesa reale in Venezuela, a meno che non minacci una guerra nucleare totale per difendere Maduro. E soprattutto hanno alleati forti come Colombia e Brasile”.

Parlare degli alleati apre uno scenario più ampio: che ruolo hanno?

“Importante ovviamente: per esempio, a mio avviso, se si dovesse davvero arrivare al punto dell’azione militare contro il regime, sarebbe proprio esercitata nell’ambito dell’Organizzazione degli Stati americani (OAS) e non da un intervento militare diretto degli Stati Uniti”.

C’è una crescente serie di affermazioni dal dipartimento di Stato e dal Consiglio di sicurezza nazionale a proposito di una presenza militare cubana in Venezuela (che si porta dietro una posizione più tiepida da parte della Cia in realtà). Si è parlato anche del coinvolgimento della Cina, che ha investito nel petrolio venezuelano; ma le segnalazioni di un qualche contingente militare del Dragone nel paese sembra essere un fake creato ad arte.

Questa situazione sembra assumere i contorni di un dossier globale. Con che sbocchi?

“Dobbiamo tenere in considerazione un aspetto importante: gli Stati Uniti con Trump, molto più che con i suoi predecessori, hanno dato molta attenzione alla supremazia emisferica. È una dottrina strategica che prevede di costuire come base della potenza americana il controllo continentale da proiettare oltre i due oceani. In particolare viene utilizzato il vicepresidente Mike Pence per mantenere più stretti i contatti intracontinentali, e va sottolineato che con le ultime evoluzioni politiche, questi paesi sembrano avvicinarsi di più agli Stati Uniti, vedere per esempio il Brasile, che ha un ruolo centrale nella gestione della crisi venezuelana”.

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